Soffiano venti di guerra. E pensieri dolorosi e confusi riempivano la mia mente, nei giorni scorsi, mentre, tornato a Siena, salivo fino al Duomo (vedi foto). Quando, in cima a via dei Fusari, appare di colpo lo splendore della facciata scolpita da Giovanni Pisano, si è investiti da emozioni che – come diceva Federico Tozzi – “fanno mancare il respiro e scoppiare il cuore”.

Non si trovano parole. Anche se si sono letti mille studi che spiegano tutti i dettagli di quel capolavoro. Anche se si è nati lì ed è la millesima volta che si torna su quella piazza. Il libro di marmo della facciata e poi quello dell’immenso pavimento istoriato, lo struggente Pulpito di Nicola Pisano e poi l’opera di Duccio, di Donatello, di Michelangelo… Quella fuga di marmi e di colonne bianche e nere…

Si comprende perché Richard Wagner – che arrivò a Siena nell’estate 1880 – ne rimase folgorato. Era il 23 agosto. La moglie Cosima annotò: “visita al Duomo! Richard si è commosso fino alle lacrime, dice che è l’impressione più forte che abbia mai ricevuto da un edificio. Vorrei ascoltare il preludio del Parsifal sotto questa cupola”.

Wagner tornerà più volte nella Cattedrale (il mese successivo ci porterà pure il suocero Franz Liszt): “Gli sembra quasi un miracolo aver trovato in Siena, nel suo duomo – ha scritto Attilio Brilli – l’ambientazione tante volte sognata per la scena conclusiva del Parsifal, e averla trovata proprio nel momento in cui sta ponendo materialmente fine all’opera”.

Infatti a Siena, a Villa Torre Fiorentina, la porterà a termine. È con lui il pittore Paul Joukovsky a cui fa realizzare dei bozzetti degli interni della Cattedrale grazie ai quali dipingerà la scenografia montata poi a Bayreuth nel 1882, per la rappresentazione del Parsifal (Wagner vedeva il Duomo di Siena come la perfetta Sala del Graal).

Giovanni Minnucci, Rettore dell’Opera del Duomo, ha rievocato questi fatti per spiegare la serie di eventi musicali – dal 20 ottobre al 12 novembre – intitolati “Wagner und Siena” e realizzati in collaborazione con l’Accademia Musicale Chigiana (ci sarà anche l’esecuzione di alcune parti del Parsifal in Cattedrale).

Fra l’altro proprio quest’opera sancì la rottura fra Wagner e Nietzsche. Era troppo cristiana. Come sottolinea René Girard, “Nietzsche afferma di essere stato sconvolto dall’abietto cedimento al cristianesimo che il Parsifal rappresenta”.

Eppure in uno dei suoi frammenti lascerà scritto che il “Preludio del Parsifal è “il più grande beneficio che da tempo mi sia stato resoNon conosco nulla che prenda così in profondità il cristianesimo e che spinga così acutamente verso la compassione… Il più grande capolavoro della sublimità che io conosca, una espressione indescrivibile della grandezza nella compassione al riguardo; nessun pittore ha dipinto un tale sguardo oscuro, triste, come ciò è riuscito a Wagner nell’ultima parte del preludio. Neppure Dante, neppure Leonardo… è come se, dopo molti anni, qualcuno mi parlasse dei problemi che mi preoccupano, non naturalmente con le risposte che tengo pronte in proposito, ma con le risposte cristiane – alla fine questa è stata la risposta di anime più forti di quelle prodotte dai nostri ultimi due secoli”.

Girard commenta giustamente che questo frammento “contraddice tutto quanto l’ultimo Nietzsche afferma non solo sul Parsifal e su Wagner, ma, in particolare, sulla volontà di potenza, il risentimento e il cristianesimo, ossia su tutto quanto sembra più indiscutibile nel credo professato dall’ultimo Nietzsche”.

Se si considera che Nietzsche è il filosofo di riferimento nella demolizione, in corso, della civiltà giudaico-cristiana, si può capire quanto è significativo il Parsifal che sarà eseguito nel luogo ideale che Wagner aveva immaginato: il Duomo di Siena.

Forse quella “compassione cristiana” contro cui Nietzsche tuonava, ma che poi, tradotta in musica da Wagner, sentiva come la risposta più vera, è proprio il messaggio che ci arriva dalla Grande Bellezza che in Italia ci circonda.

Mi sono sorpreso, in questi giorni, quando ho ritrovato considerazioni simili in due personaggi lontani (fra loro e da me) come idee: Adriano Sofri e Roberto D’Agostino.

Sofri l’altro ieri ha raccontato sul Foglio di un suo girovagare per Firenze dove vive. Quasi per caso è entrato, come tante altre volte, alla Badia Fiorentina (“quella dove Dante vide Beatrice”) e poi al Bargello che “una volta mi era famigliarissimo”.

Scrive: “è uno di quei luoghi in cui ci si chiede come sia stato possibile. In cui è troppo”. Dove si ha “la sensazione di essere soverchiati, di non saper né voler decidere davanti a quale Michelangelo, a quale Donatello, a quale Verrocchio, a quale Cellini… fermarsi. Viene da chiudere gli occhi. Dimettersi. Lasciare che quell’adunata di opere meravigliose passino inosservate… La bellezza fa soggezione, naturalmente… così impassibile e al tempo stesso così vulnerabile alla guerra mondiale…”.

Alla fine Sofri confessa di aver provato “una specie di compassione” per la gente che c’era. “Il Bargello mi è sembrato come un rifugio, in cui correre disciplinatamente a ripararsi quando risuonano le sirene d’allarme in tempo di pace”.

Roberto D’Agostino – noto per il suo sito scanzonato – ha dato un’intervista a Repubblica dove parla del suo recente film “Roma santa e dannata”, raccontata come una “selva oscura”, come “Caput mundi e chiavica der monno”.

Ma quando gli viene chiesto se considerarla “città eterna” è un luogo comune, dà una risposta folgorante: “No, quello è vero. Roma è eterna perché davanti alla Fornarina di Raffaello, al Mosè di Michelangelo o alla cupola del Pantheon, senti che quelli sono molto più vivi di te. Quando noi saremo polvere, i quadri del Caravaggio a S. Luigi dei Francesi o la Cappella Sistina saranno sempre contemporanei. Una volta a Stendhal chiesero a che serve il Colosseo, lui rispose: a far battere il cuore. È la migliore spiegazione di cosa sia l’arte”.

Forse la risposta che cerchiamo, nella notte del mondo, è attorno a noi. E’ fatta di passione e di compassione.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 22 ottobre 2023

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