A 150 anni dalla nascita di Gilbert K. Chesterton si potrebbe ricordare questo meraviglioso scrittore inglese per innumerevoli motivi.

Potremmo citare i suoi divertenti e profondi paradossi, specialmente quelli che irridono i dogmi della modernità. O quelli sugli intellettuali (“ciò che comunemente chiamiamo mondo intellettuale si divide in due categorie di persone: coloro che venerano l’intelletto e coloro che lo usano”).

E si potrebbero ricordare certe sue battute “profetiche” sui tempi futuri in cui – diceva lo scrittore inglese – occorrerà audacia anche per affermare che i prati sono verdi in primavera (è proprio ciò che accade oggi, con l’enorme lontananza dell’ideologia dalla realtà e la proibizione di indicare l’evidenza delle cose).

Ma c’è un aspetto meno conosciuto di lui: quello politico. Non mi riferisco solo all’elogio delle piccole patrie contenuto nel “Napoleone di Notting Hill” – che pure è molto interessante – o alla difesa “poetica” della gente comune, del ceto medio, nei suoi scritti sull’economia. I quali dimostrano che Chesterton era sì un conservatore, ma con una sua sensibilità sociale: con il solito ricorso al paradosso amava dire che il difetto del capitalismo consiste nel fatto che ci sono pochi capitalisti e dovrebbero essercene di più (intendeva dire che tutti dovrebbero avere la possibilità di accedere alla prosperità).

Ma c’è un altro aspetto che è stato notato (addirittura) da Hannah Arendt nel suo capolavoro “Le origini del totalitarismo”, precisamente nelle pagine in cui analizza l’imperialismo europeo che inizia negli anni ottanta del XIX secolo “con la corsa alla conquista dell’Africa”.

A un certo punto scrive: “Relegando malanni e preoccupazioni negli altri continenti, esso produsse quell’illusorio senso di sicurezza, così diffuso nell’Europa d’anteguerra, che ingannò tutti fuorché gli spiriti più sensibili. Péguy in Francia e Chesterton in Inghilterra si resero istintivamente conto che vivevano in un mondo di false apparenze e che fra queste la stabilità era la più vistosa. Finché l’intero edificio non cominciò, dopo la prima guerra mondiale, a crollare, proprio la stabilità delle strutture e forme palesemente antiquate fu un fatto politico di prim’ordine, e la loro indifferente tenace longevità sembrò smentire coloro i quali sentivano il suolo vacillare sotto i piedi”. Ma “alla fine tutto venne distrutto, il buono come il cattivo”.

È molto interessante l’osservazione della Arendt che accomuna Chesterton e Péguy nell’intuizione “profetica” sulla fragilità di quell’Europa imperialista. Fra l’altro è anche significativo che questi due scrittori fossero accomunati da un progressivo avvicinamento al cattolicesimo (fino alla conversione piena, dopo la quale ne divennero due delle voci più geniali) e dal loro essere due intellettuali del tutto fuori dagli schemi e dalle accademie, profondamente originali e affascinanti per tutti.

L’acume politico di Chesterton – che pure non era un addetto ai lavori e scriveva da giornalista con un’ottica spirituale – è documentato anche in alcuni suoi interventi di epoche successive.

Per esempio, vorrei ricordare, per la sua straordinaria attualità, un suo articolo del 1927 “Sull’Europa e sull’Asia”, ripubblicato ora nel volume “Giovani idee. La felicità di pensare” (Ares).

Chesterton prendeva spunto dalla battuta di “un illustre capitalista secondo cui tutto sarebbe andato bene in Cina se avessimo portato via i missionari e lasciato lì solo i mercanti”.

Lo scrittore – con la sua solita ironia – afferma l’esatto contrario: “se la nostra civiltà ha qualcosa da dare alle altre popolazioni del pianeta, senza dubbio questo è in relazione alla grande possibilità di donare a un uomo un’idea, e non è legato alla semplice convenienza di vendergli pantaloni o stivali o un cappello a bombetta”.

La nostra civiltà – spiegava Chesterton – ha esportato nel mondo abbigliamento (e altre merci) invece di esportare “il cristianesimo, la cavalleria, la monogamia, la democrazia e l’ideale civile”.

Così “non solo l’Asia ha preso in prestito tutte le cose sbagliatedell’Europa, ma anche l’Europa ha preso in prestito e in abbondanza tutte le cose sbagliate dell’Asia”.

Se si considera che solo un decennio più tardi, importando il marxismo europeo, Mao impose in Cina il comunismo, capiamo quanto era preveggente l’analisi di Chesterton. Si potrebbe aggiungere che alla fine degli anni Sessanta l’Europa importò il maoismo a ulteriore conferma.

Non solo. Trent’anni fa, dall’America clintoniana, partì l’idea di fare della Cina la fabbrica del mondo. Cosicché noi fummo sommersi di prodotti cinesi e la nostra industria e il nostro stato sociale regredirono… Loro hanno importato un capitalismo totalitario e noi non abbiamo mai chiesto alla Cina il rispetto dei diritti umani e l’instaurazione della democrazia.

Adesso, su Taiwan, dicono le cronache, potrebbe accendersi la miccia decisiva della guerra mondiale. Chi era dunque più lungimirante, “l’illustre capitalista” o il cattolico Chesterton?

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 29 maggio 2024

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