“Quid est veritas?” (che cos’è la verità?). L’esclamazione scettica di Pilato rivolta a Gesù, mentre lo interrogava (Gv 18:38), restò senza risposta verbale perché il governatore romano non aspettava nessuna risposta: stava solo ironizzando su quanto aveva appena detto l’uomo di Nazaret (“per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità”).

Forse nulla come la domanda di Pilato rappresenta e descrive quegli uomini disincantati e un po’ disperati del XXI secolo che siamo noi. Anche noi abbiamo domande, ma non ci aspettiamo risposte, né le cerchiamo. Siamo disinteressati perché riteniamo pregiudizialmente che nessuno abbia “la” risposta. Pensiamo che la verità non esista perché ognuno ha la sua e se la racconta come vuole.

Quell’uomo di Nazaret, per quanto affascinante e nobile (così appariva allo stesso Pilato che ne era colpito), aveva avanzato una pretesa inaudita: “Io sono la verità”. Anzi di più: “io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14:6).

Con la mentalità di oggi sembra una pretesa da pericoloso fondamentalista, ma noi non lo prendiamo alla lettera come fece Francesco d’Assisi. Noi oggi ricordiamo quell’uomo di Nazaret, nelle festività cristiane, sui nostri media, come un poeta illuso di duemila anni fa, come un profeta disarmato che predicava bontà, come un sognatore fallito.

Invece, per lealtà, dovremmo dire che era un pazzo, perché un uomo che afferma di essere “la verità” e di essere Dio e addirittura sfida chi lo ascolta dicendo “vieni e vedi”, dovrebbe essere considerato un pazzo(oppure dovrebbe essere seguito e amato come una speranza infinita).

E siccome non vogliamo fare i conti con quella sua inaudita pretesa (e con i segni straordinari che faceva) ci siamo affidati ai soloni che mettono in dubbio le parole del Vangelo (e quei miracoli) e sentenziano che mai le pronunciò e mai fece prodigi (cosa invece certissima perché per quelle parole fu messo a morte e pure i suoi avversari hanno lasciato testimonianza dei suoi miracoli).

Così abbiamo stancamente liquidato la pratica dell’uomo che si diceva Dio, assistendo al tramonto del cristianesimo nell’indifferenza generale. Il Natale e la Pasqua sono diventati tradizione e folklore, niente più.

Poi d’improvviso ci è piombata addosso, inattesa, la pandemia, col suo carico di atrocità e di bare. E ci siamo accorti che la morte, che è certa, incombe su ognuno di noi.

Avevamo fatto di tutto per esorcizzarla, per dimenticarcene e la morte ha fatto irruzione in modo violento e disumano nelle nostre vite, come un pazzo minaccioso che va in giro terrorizzando.

Dunque ci siamo rifugiati nella scienza per avere rassicurazioni, persuasi che l’unica verità indiscutibile sia lì. Ci siamo abbeverati al verbo degli “scienziati” come condannati a morte in cerca di scampo.

In effetti la scienza può aiutare ed aiuta, ma non possiede la Verità. Acquisisce conoscenze importanti per rimandare la morte, ma non è “la Verità”. Lo spiegava un filosofo come Karl Popper: “Tutta la nostra conoscenza rimane fallibile, congetturale. La scienza è fallibile perché la scienza è umana”.

Ce ne siamo resi conto ascoltando per mesi esperti e scienziati che si contraddicevano gli uni con gli altri e perfino autorità sanitarie supreme che davano indicazioni sbagliate o che si smentivano.

Dunque Popper aveva ragione. Infatti la scienza vera ha sempre dichiarato i propri limiti (per questo può progredire). Anche la scienza medica, che è preziosa, non è infallibile. Non possiede la Verità, né può dirci perché si vive o perché si soffre o perché si ama, né può darci l’immortalità.

E noi che siamo mortali continuiamo a sentire la morte – specialmente la morte di chi amiamo – come un’ingiustizia e una violenza. Non siamo fatti per morire. La morte rende la vita assurda, demenziale e inutile.

Quando arriva la notizia della morte di Lady Macbeth, Shakespeare fa dire a Macbeth:

“Sarebbe pur morta, un giorno o l’altro. Il tempo per quella parola sarebbe comunque venuto… tutti i nostri ieri hanno illuminato a degli stolti la strada verso la polverosa morte. Spegniti, spegniti, breve candela! La vita non è che un’ombra in cammino; un povero attore che si agita e si pavoneggia per un’ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore, e senza alcun significato.

E’ proprio così. O meglio: sarebbe proprio così. Se un uomo, l’uomo di Nazaret, non avesse avanzato quell’inaudita pretesa: “io sono la via, la verità e la vita”. E poi aggiunse che lui era più forte della morte e l’avrebbe sconfitta. E si sarebbe manifestato vivo sulla terra dopo la morte (Mc 14:28).

L’autore dell’articolo che state leggendo, nel suo piccolo, testimonia (con emozione e pudore) che è vero. E’ così. Infatti c’è perfino qualcosa che è più tremendo della morte e io conosco da anni questi abissi di dolore e so, per esperienza so, come possono essere trasfigurati gloriosamente dalla grazia, dalla presenza tenera e discreta, ma anche viva e potente fra noi, del Risorto, Gesù di Nazaret. Si può sperimentare: “Vieni e vedi…”.

Permettetemi un’altra piccola nota autobiografica. Penso al mio professore degli anni di università, Franco Fortini, poeta e critico letterario, marxista eretico e uomo straordinario.

Ricordo ancora il suo stupore quando citava le terzine della Divina Commedia in cui Dante spiegava che i beati nella “festa di Paradiso” sono pieni di felicità, ma che essa diventerà completa quando saranno ricongiunti ai corpi, con la resurrezione finale:

“forse non pur per lor, ma per le mamme,

per li padri e per li altri che fuor cari

anzi che fosser sempiterne fiamme”.

Dante svela così che la resurrezione ci restituirà non solo il nostro corpo, eternamente giovane e bello, ma la concretezza carnale di coloro che abbiamo amato, i loro sguardi, il loro sorriso, la loro voce, quei capelli, quei momenti e così pure quelle albe e quei tramonti, quei fiori e quei dolci paesaggi che ci incantavano e quel mare e quelle montagne, e quegli amici, perché tutto ci sarà ridonato. Nulla andrà perduto della bellezza e della bontà, grazie all’Amore che si è fatto crocifiggere per noi ed è risorto.

Pilato aveva il presentimento che quell’uomo misterioso fosse ciò che diceva, perciò non voleva condannarlo.

Nella sua domanda, che la Vulgata riporta in latino, “Quid est veritas?”(cos’è la verità?), c’era già la risposta, infatti se anagrammate la frase avrete: “Est vir qui adest” (è l’uomo che è davanti a te). Egli è davvero qui, oggi.

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Antonio Socci

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Da “Libero”, 4 aprile 2021

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