Alain Finkielkraut, uno degli intellettuali più interessanti del nostro tempo, nacque a Parigi (da genitori ebrei polacchi sopravvissuti ad Auschwitz) nel 1949 ed esordì partecipando alla contestazione studentesca del maggio ’68 a Parigi.

Con gli anni prese le distanze dal conformismo progressista. Critico del politicamente corretto, nell’intervista rilasciata alla Stampa (12/11), riflettendo sulle recenti aggressioni di Amsterdam ai tifosi israeliani, fa considerazioni molto pungenti.

Parla di “un antisemitismo portato in valigia dall’immigrazione massiccia e accolto non dall’estrema destra, ma dalla sinistra radicale”. Spiega pure il contesto storico recente: “La mondializzazione si è ritorta contro l’occidente, ha contribuito alla sua deindustrializzazione, trasformando la Cina nella fabbrica del mondo”.

Nel malessere sociale che ne è nato, in questa Europa impoverita, si inserisce “l’immigrazione incontrollata” e “purtroppo” aggiunge “la sinistra francese si definisce con l’ospitalità incondizionata. Basta evocare la chiusura delle frontiere per essere giudicati di estrema destra: è assurdo perché tutti i popoli hanno diritto a una continuità storica”.

Qui si inserisce la sua critica al multiculturalismo. Il problema per lui non è solo la vasta immigrazione islamica che in genere è refrattaria all’assimilazione (anche alla seconda e alla terza generazione), ma anzitutto la rinuncia all’identità e alla propria storia che sembra essere teorizzata dalle nostre élite.

Finkielkraut ha preso parte al “dibattito sull’identità nazionale lanciato nel novembre 2009 dal governo francese” che “ha provocato il furore del mondo intellettuale”. Nel libro L’identità infelice (Guanda) ricorda “il filosofo inglese Roger Scruton” che ha parlato di oicofobia ovvero “l’odio della casa natale, e la volontà di disfarsi di tutto il mobilio accumulato nei secoli. Tale rifiuto non è un capriccio da filosofi. Anche la burocrazia si unisce al coro. I guardiani stessi della casa sono oicofobici. Nel 2011, negli istituti scolastici dell’Unione europea è stato distribuito un diario: vi comparivano tutte le festività religiose, con la notevole eccezione delle feste cristiane. L’assenza ha fatto scandalo. I suoi responsabili si sono subito impegnati a rimediare alla dimenticanza. Ma verrà il giorno in cui, per non offendere nessuno, le feste di Natale diventeranno, nel discorso ufficiale, ‘le feste di fine anno’ o, più poeticamente, ‘le feste d’ingresso nell’inverno’. Le élite dell’Europa post-hitleriana e post-coloniale riservano dunque un’accoglienza contrastata alla nozione d’identità”.

Secondo la teoria che va per la maggiore (anche nell’Italia di sinistra) non esiste un’identità nazionale, ma “la storia è un lento continuum di mescolanze”.

Finkielkraut commenta criticamente: “Apprendiamo che non è la Francia a venire dal profondo dei secoli, come voleva, dopo Péguy, il generale de Gaulle, ma il rimescolamento delle popolazioni. Conclusione: il cambiamento demografico non incide sull’identità nazionale, perché la nazione non ha altra identità che il cambiamento perpetuo”.

Per smontare questa teoria suicida basta confrontare il collettivo con il singolo: anche ciascuno di noi è il risultato di una lunga serie di combinazioni genetiche, tuttavia è una persona, non è un flusso indistinto di identità diverse, ma un concreto io, con una precisa identità individuale, esistente e irriducibile pur nel mutare della storia. Così sono anche le identità nazionali.

Antonio Socci

Da “Libero”, 16 novembre