Forse, oltre ad astenersi dal matrimonio, gli ecclesiastici dovrebbero astenersi anche dalle interviste. Per non confondere il Verbo con le chiacchiere.
L’altroieri per esempio il cardinale Claudio Hummes ha rilasciato dichiarazioni che sono parse esplosive sul tema del matrimonio dei preti. Non potevano passare inosservate perché Hummes in queste ore sta arrivando a Roma chiamato dal Papa proprio come “ministro” per il clero.
Ecco cos’ha detto il cardinale: “Anche se i celibi fanno parte della storia e della cultura cattoliche, la Chiesa può riflettere sulla questione del celibato perché non è un dogma, ma una norma disciplinare”.
Di per sé ha ragione chi ha notato che non c’è niente di nuovo, perché di certo il celibato ecclesiastico non è un dogma di fede. Ma è evidente che annunciare oggi una possibile revisione, mentre Hummes si appresta a guidare la Congregazione del clero e mentre si intensificano gli attacchi a questo istituto, significa indurre i giornali a titolare: “Il Vaticano apre sui preti sposati”.

Se il cardinale avesse inteso dire questo sarebbe andato contro il Papa e la Chiesa: appena venti giorni fa Benedetto XVI ha riunito i capi dei dicasteri romani ribadendo il “valore della scelta del celibato sacerdotale secondo la tradizione cattolica”. Ovvia e prevedibile dunque la sua correzione di ieri.
Tuttavia dichiarazioni avventate come le sue alimentano la confusione nella Chiesa. E c’è una parte del suo ragionamento che, essendo molto diffuso, merita di essere discusso e confutato.
La prima dichiarazione di Hummes sembra ridurre tutto a una banale “norma disciplinare” che, come tale, può anche essere ribaltata. La stessa posizione dei “catto-progressisti” che vogliono la resa della Chiesa davanti al mondo e il rinnegamento della tradizione.
Infatti ieri Pietro Scoppola – per dirne uno – dichiarava al Corriere della sera: “il celibato ecclesiastico è solo una norma di diritto canonico, una scelta della tradizione, non fondata teologicamente. Mi sembra importante che oggi davanti alla crisi della vocazioni si possa pensare a scelte diverse aperte alle nuove esigenze”.

In poche righe troviamo una summa dei luoghi comuni circolanti sulla materia. Solo che questo luogocomunismo è infondato.
Intanto perché la cosiddetta “crisi delle vocazioni” e la secolarizzazione attanagliano anche (e di più) le confessioni protestanti e le chiese ortodosse che pure non hanno il celibato ecclesiastico.
In secondo luogo perché i fatti (anche le statistiche recenti) dimostrano che nella stessa Chiesa Cattolica stanno aumentando le vocazioni più rigoriste, come quelle di clausura, mentre calano ancora le vocazioni secolari dove più si è concesso al mondo e all’attivismo sociale.
Le vocazioni infatti – per la Chiesa – derivano dalla grazia di Dio e non certo da uno studio sociologico con conseguente pacchetto-regalo che elabora qualche offerta speciale: tonaca e moglie, due al prezzo di uno.
Ma infine è proprio vero che il celibato ecclesiastico è solo “una norma di diritto canonico” o – come dice Hummes – una “norma disciplinare” che come tale si può tranquillamente ribaltare?
No. Non è vero. La Chiesa Cattolica, nella sua lunga tradizione, è andata maturando una dottrina opposta. Lo ha spiegato molto bene il cardinale Alfonso Stickler nell’opera “Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici”.
Stickler lavorò come perito al Concilio Vaticano II e all’elaborazione del nuovo Codice di diritto canonico. E’ stato Rettore dell’Università salesiana e vicepresidente del Bureau dell’Associazione Internazionale di Storia del Diritto e delle Istituzioni.
Creato cardinale nel 1985 da Giovanni Paolo II, Stickler ha dimostrato – nei suoi studi – che non è possibile capire le istituzioni della Chiesa senza comprendere le basi teologiche che le originano. Anche sul celibato ecclesiastico.

La vulgata corrente, superficiale e sbagliata, è quella ripetuta ieri da Franco Cardini (ormai approdato alla comoda riva del pensiero dominante) secondo cui: “il celibato dei preti risale solo alla seconda metà dell’XI secolo. Prima i sacerdoti si sposavano”.
In pratica, per costoro, si potrebbe fare una storia di come fu introdotta la legge del celibato ecclesiastico in Occidente. Ma questo non è vero, come si dimostra nel noto Wörterbuch der Kirchengeschichte, a cura di Carl Andresen e di Georg Denzler (Deutscher Taschenbuch Verlag, Monaco di Baviera 1982).
Al contrario si può scrivere la storia della decisione inversa presa dalla Chiesa Orientale.

Stickler, in sintesi, spiega che non conosciamo nessuna decisione ecclesiastica che abbia introdotto come innovazione il celibato, il quale risale invece a una ininterrotta tradizione non scritta, a una consuetudine di origine apostolica, probabilmente addirittura divina.
E’ vero infatti che lo stesso S. Pietro era sposato, ma si era sposato prima della chiamata di Gesù e – spiega Stickler – la legge del celibato ecclesiastico consiste nell’obbligo della “continenza da ogni uso del matrimonio dopo l’ordinazione”.
Che poi è diventata la norma del celibato perché “l’origine di ogni ordinamento giuridico consiste nelle tradizioni orali e nella trasmissione di norme consuetudinarie le quali soltanto lentamente ricevono una forma fissata per iscritto”.
Risalendo alle origini troviamo anche le ragioni teologiche del celibato. Perché nel Nuovo Testamento il sacerdote non è più un uomo che svolge un servizio religioso, ma una persona che interamente si dona per amore, come Cristo alla sua Chiesa. E che da Cristo riceve prerogative e poteri divini.
Stickler indica come essenziale e definitiva l’esortazione apostolica post-sinodale “Pastores dabo vobis”, del 25 marzo 1992, che definisce la “Magna Charta della teologia del sacerdozio che rimarrà norma autorevole per tutto l’avvenire della Chiesa”.
In essa si afferma: “È particolarmente importante che il sacerdote comprenda la motivazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato”. E si aggiunge: “l’Ordinazione sacra configura il sacerdote a Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo l’ha amata. Il celibato sacerdotale, allora, è dono di sé in e con Cristo alla sua Chiesa ed esprime il servizio del sacerdote alla Chiesa in e con il Signore”.

Ci sono anche ragioni pratiche e sociali che motivano il celibato ecclesiastico, ma la ragione di fondo è teologica e non può essere degradata a semplice “norma disciplinare”.
Ma perché l’attacco mondano alla Chiesa su questo punto trova tali appoggi nel mondo ecclesiastico?
Anni fa, da cardinale, Joseph Ratzinger colse il dramma del momento presente: “Il prete, cioè colui attraverso il quale passa la forza del Signore, è sempre stato tentato di abituarsi alla grandezza, di farne una routine. Oggi la grandezza del Sacro potrebbe avvertirla come un peso, desiderare (magari inconsciamente) di liberarsene, abbassando il Mistero alla sua statura, piuttosto che abbandonarvisi con umiltà, ma con fiducia per farsi elevare a quell’altezza”.

Ecco perché, giustamente, padre Livio Fanzaga, dai microfoni di Radio Maria, nella sua ascoltatissima rassegna stampa del mattino, ha commentato il “caso Hummes” così: “Il problema non è la moglie, ma la fede”. Questo è il cuore del problema per la Chiesa di oggi.

Fonte: © Libero – 5 dicembre 2006

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