L’appello lanciato dalle pagine del “Mulino” da tre importanti intellettuali, lo storico Ernesto Galli Della Loggia, il filosofo Roberto Esposito e il letterato Alberto Asor Rosa, meriterebbe una grande discussione. Anche da parte delle élite politiche.

Se non altro per la singolarità di una denuncia-documento che lega insieme personalità così diverse per orientamento culturale e politico.

 

DECADENZA

 

Cosa dice quel documento? Lamenta che siamo “al punto limite” della dissoluzione culturale del Paese. Indica i maggiori punti di criticità nel sistema formativo.

Rileva che s’impone l’ “urgenza” di un cambiamento per la formazione umanistica dei giovani, il cui collasso produce, come conseguenza, la decadenza identitaria e civile del Paese che diventa decadenza economica e politica.

Le discipline tecnico-scientifiche e l’economia – affermano i tre – sembrano orami le uniche forme di sapere. E dominano perfino nelle valutazioni scolastiche ed universitarie delle scienze umane, (anche la retorica esterofila dell’inglese e dello “studiare all’estero” sradica intere generazioni dal passato e dai luoghi dell’identità italiana).

L’Appello dice molte cose sacrosante sulla scuola. Anche se ci sarebbe da chiedersi dov’erano questi intellettuali (in particolare i due “di sinistra”, perché Galli della Loggia si fece sentire) quando la pedagogia progressista, padrona nella scuola italiana, teorizzava che era meglio educare i ragazzi con i videogiochi che con la Divina Commedia.

 

SUICIDIO EUROPEO

 

I tre intellettuali criticano pure il fatto che ormai “l’alfa e l’omega della politica sia l’economia”, tanto che oggi “l’Europa della crisi economica” è “anche l’Europa della crisi politica”.

Verissimo. Ma – a parte il fatto che tale argomento suona un po’ strano per chi, dei tre, è stato (e forse è ancora) marxista – viene da chiedere: quando – negli anni Novanta – è stata imposta all’Europa questa gabbia tutta fatta di parametri economici e di moneta unica, dov’erano questi intellettuali?

E cosa scrivevano sui giornali gli accademici e gli umanisti?

Qualcuno ricorda che, negli anni Novanta, opporsi all’Europa dei tecnocrati e criticare la moneta unica come un esperimento da “apprendisti stregoni” significava condannarsi quasi alla morte civile?

E si è mai levata una voce dal coro degli intellettuali illuminati per denunciare il fatto che la cessione di quote enormi di sovranità degli stati avveniva quasi all’insaputa dei popoli e fuori dalla legittimazione esplicita dei cittadini elettori?

E – in quell’ubriacatura conformista di parametri economici e di moneta unica – quanti intellettuali italiani si sono battuti per chiedere un’unificazione europea fondata anzitutto su basi culturali e spirituali?

Quanti hanno fatto sentire la loro voce perché nella Costituzione europea fossero richiamate le radici giudaico-cristiane dell’Europa?

Forse Galli Della Loggia è fra i rarissimi. Ma gli altri?

 

CATTOLICESIMO RIMOSSO

 

Giustamente ieri su “Avvenire”, Adriano Fabris, pur dicendosi d’accordo con tanti argomenti dei tre intellettuali, ha sollevato un’obiezione: com’è possibile che un appello per il ritrovamento della cultura umanistica e delle nostre radici culturali non contenga alcun riferimento alle religioni e in particolare “all’apporto che la tradizione ebraico-cristiana ha dato in Occidente alla definizione dell’umano”?

Lo stesso Umanesimo del Quattrocento è nato nell’ambito cristiano. Per non dire della letteratura, della lingua, dell’arte, dell’architettura e dell’urbanistica delle nostre città.

Il documento ripete la solita solfa dell’identità italiana che – in mancanza di uno stato unitario – sarebbe vissuta per secoli solo nella lingua e nella letteratura.

Ma dall’alba della lingua italiana, con san Francesco, ai pilastri della letteratura (Dante, Tasso, Manzoni), tutto risplende di cattolicesimo. La verità (negata) è che l’identità italiana, per secoli, è stata data dal cattolicesimo.

Se infatti una nazione è identificata, manzonianamente, da unità di lingua, di storia e di religione (“una d’arme, di lingua, d’altare,/ di memorie, di sangue e di cor”), bisogna dire che da noi c’era solo religione.

Perché al momento dell’Unità, nel 1861, solo il 2,5 per cento della popolazione parlava l’italiano (cioè il toscano come lingua nazionale) e due terzi di essi erano appunto i toscani. Gli stessi Savoia, che conquistarono militarmente il Paese e furono i primi re d’Italia, parlavano francese.

E la storia e l’economia erano ben divergenti perché “il Piemonte era economicamente più integrato alla Francia che alla Sicilia. E quest’ultima era integrata più all’Inghilterra che alla Lombardia” (Ruggiero Romano, Paese Italia. Venti secoli di identità).

Ciò che nel Risorgimento si chiamava Italia – come ha osservato il laico Sergio Romano – era unito solo da una cosa: il cattolicesimo.

Aver fatto un’unità per via militare contro questa identità nazionale ha avuto conseguenze nefaste. E nefasta è ancora una cultura – di diversa derivazione – che si trova unita solo nel dimenticare queste radici.

I tre intellettuali lamentano la colpevole “rimozione del passato” perpetrata nel nostro Paese, ma poi sono loro stessi i primi a rimuovere il cattolicesimo, che permea tutta la cultura e la storia d’Italia.

Come si fa a sostenere che ”il ‘politico’ è indubbiamente la chiave interpretativa della cultura italiana”? Non è un modo per protrarre ancora l’errore fatale che fu perpetrato dall’inizio dell’unità statuale italiana?

Parlare oggi per pagine e pagine di “umanesimo” riducendo la questione alla solita geremiade dei docenti delle facoltà umanistiche, che si sentono ormai in serie B rispetto alle facoltà tecnico-scientifiche, è davvero provinciale.

 

EMERGENZA UOMO

 

Da intellettuali di quella autorevolezza ci aspetteremmo almeno che mettessero a tema – con la fine del sapere umanistico nelle scuole – la fine dello stesso umanesimo nel discorso pubblico e nella cultura dominante, dove ormai il nichilismo ha spazzato via tutti i fondamentali, dal valore della vita umana alla stessa identità, dalla natura alla ragione.

Ben altro spessore (ne ho parlato su queste colonne) ha la denuncia fatta da tre intellettuali marxisti come Mario Tronti, Giuseppe Vacca e Pietro Barcellona dell’ “emergenza antropologica” che rischia di affondare la nostra civiltà.

E infatti costoro – definiti dalla stampa “marxisti ratzingeriani” – hanno saputo individuare nel magistero della Chiesa il punto di resistenza più forte e profondo all’attuale “dittatura del relativismo” e della tecnocrazia.

Anch’essi hanno denunciato la pericolosa pretesa della tecnologia e della scienza su ciò che è umano, ma hanno saputo riconoscere che la Chiesa è depositaria di un sapere sull’uomo che salva la sua libertà, la sua dignità e la sua integralità.

La Chiesa che fece germogliare l’arte italiana, la sua letteratura, le sue istituzioni (dalle università agli ospedali), la Chiesa che partorì l’umanesimo stesso, è oggi sulla breccia, quasi da sola, a difendere – con l’umanesimo – anche l’umano, perfino l’umano. Che oggi è in discussione.

Va detto che almeno uno dei tre firmatari dell’appello, ovvero Galli Della Loggia, ne è ben consapevole, perché da anni ne scrive (con notevole coraggio civile). Tuttavia l’appello pubblicato sul “Mulino” non ne reca traccia.

E la quasi totalità della “cultura italiana” lo ignora o lo nega. Se mai fosse possibile tale cultura è quasi più avvilente della politica italiana. Parafrasando Giacomo Noventa sul fascismo, la cancellazione della nostra identità umanistica, non è un errore “contro” la cultura italiana, ma un errore “della” cultura italiana.

Quindi sarebbe auspicabile che appelli come quelli del “Mulino” iniziassero con un “mea culpa” anziché con un atto d’accusa. E magari si concludessero con un profondo ripensamento autocritico di quelle culture (gentiliana, crociana, gramsciana, illuminista, azionista, nichilista) che hanno sempre dettato legge.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 8 dicembre 2013

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