E’ vergognoso e suicida, per un grande Paese come l’Italia – una delle prime potenze industriali del mondo – avere il 40 per cento di disoccupazione giovanile (fra i 15 e i 24 anni).

Significa che una generazione – con immense potenzialità – rischia di essere sacrificata o restare ai margini della vita (per gli errori delle classi dirigenti): sacrificata sull’altare di politiche (europee ed eurocentriche) che si sono dimostrate fallimentari.

Dovremmo far di tutto per capovolgere quelle politiche e cambiare strada. Altro che chiedere “più Europa”, dovremmo chiedere più Italia, più interesse nazionale. Finalmente.

Ho tre figli – tutti fra i venti e i trent’anni – e so bene quanto sia doloroso e ingiusto per loro pagare quegli errori dei diversi governi e avere davanti a sé un’interminabile e sfibrante strada di precariato mal pagato e senza prospettive sicure.

Anche in questi giorni – per alcuni fatti di cronaca – si è tornati a parlare del “precariato” dei giovani come di un dramma esistenziale, prima che sociale. E lo è. E’ il connotato del nostro tempo.

CIO’ CHE NON SI DICE

Tuttavia c’è un dramma più vasto che lo contiene: è un clima sociale che – oltre a negare un lavoro sicuro – ci nega la speranza, un clima che de-moralizza i popoli.

Viviamo in una mentalità dominante futile, che sembra voler occultare le cose per cui vale veramente la pena vivere. E’ il falò delle vanità, ma recitato sul Titanic…

Su quali fondamenti spirituali e culturali vogliamo ricostruire il nostro Paese?

E’ questa – ben oltre la politica – la domanda che è stata al centro delle recenti presidenziali americane e che è anche messa a tema, nell’altra grande potenza mondiale, la Russia, da Vladimir Putin, in tutti i suoi discorsi più importanti. Mentre le leadership italiane ed europee stanno ben alla larga da questi temi vitali.

Eppure proprio questa era la riflessione che anche Benedetto XVI aveva cercato di proporre nel dibattito pubblico europeo parlando del “nichilismo” come il grande problema dell’occidente: Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.

E’ questa la peggiore precarietà. Un clima che tutti respiriamo e forse contribuiamo a consolidare. Un clima in cui non si trovano o non si propongono o non si testimoniano più le cose per cui vale veramente la pena vivere, lottare, lavorare duramente, sacrificarsi e anche soffrire.

Dovremmo fare una grande e pacifica e umanissima rivoluzione culturale.

PRECARIA E’ LA VITA

Intanto dovremmo cominciare a dirci che precaria è la vita stessa. E la “sicurezza” va anzitutto cercata nei beni non deperibili, in ciò che non passa.

Quando sento parlare di precariato giovanile – scusate – a me viene subito, automaticamente, alla mente una scena particolare, che ho vissuto sulla mia pelle.

Era una dolce sera di settembre, a Firenze. Le luci di Ponte Vecchio si erano già accese, rispecchiandosi nell’Arno.

Una ragazza di 24 anni, bella come il sole e sana come un pesce, a dieci giorni dalla laurea in Architettura, stava parlando con alcune amiche quando di colpo si accascia a terra morta per arresto cardiaco.

E’ stata morta per un’ora e poi miracolosamente il suo cuore ha ripreso a battere. Inspiegabilmente (e ovviamente è iniziato lì un lungo Calvario).

Quella ragazza era (è) mia figlia. Tutti e tre i miei ragazzi hanno imparato da questa dura vicenda quanto è effimera l’esistenza.

E’ scioccante, sconvolgente, terribile, ti senti mancare totalmente il terreno sotto ai piedi, ti sembra che non valga più la pena fare nulla. Ho dovuto rispondere alle domande dei miei figli: “perché studiare, impegnarsi, faticare, costruire se da un momento all’altro può crollare tutto e puoi morire?”.

Ma se riesci a superare questo scoramento trovando le risposte – o lasciandoti trovare dalla Risposta – allora diventi invincibile. Allora non ti fa più paura l’incertezza del lavoro e del futuro.

CATERINA

Io sono impressionato dalla testimonianza di forza morale che ci dà mia figlia Caterina, sulla sua croce, da sette anni e mezzo.

E’ una guerriera, una lottatrice instancabile, che non si arrenderà mai. E che ce la farà. Fra sofferenze e prove indicibili. E’ una testimonianza formidabile per gli altri figli.

Questi sette anni, in cui i suoi coetanei hanno cercato lavoro e hanno cominciato a costruirsi un futuro, sia pure precario, lei li ha trascorsi inchiodata su un letto o su una carrozzella, ma tutt’altro che vinta: in lotta e vincente. Col suo sorriso radioso. E vincerà.

La sua è una forza che – insieme a chi la ama e la sostiene – anzitutto ha fatto i conti con la nostra radicale debolezza di esseri umani, con la fragilità della nostra esistenza che può essere spazzata via in un istante: siamo come l’erba che fiorisce al mattino e alla sera è tagliata via, dice la Bibbia…

Non è vero che siamo dei padreterni, che siamo padroni della vita, di noi stessi e del mondo, non è vero che la morte non esiste. Questo – che la mentalità dominante c’induce a credere – è semplicemente falso. E’ una menzogna. Un inganno.

Però c’è qualcosa più forte della morte e del nulla. E per questo vale la pena vivere.

L’INFINITO

Dirci la verità sulla vita e fare i conti con la nostra fragilità è la base di una salutare rivoluzione culturale.

Da lì può venire una forza sconosciuta e tanti, proprio tanti giovani, oggi hanno nel cuore delle risorse vitali formidabili. Basta solo aiutarli a tirarle fuori.

Ha provato a farlo Alessandro d’Avenia che oltre ad essere un grande scrittore è anche un appassionato professore che sa stare con i giovani. Lo ha fatto attraverso Giacomo Leopardi. Il suo libro, “L’arte di essere fragili”, ha colpito molti ragazzi e anche adulti.

“Viviamo in un’epoca” ha scritto nella quarta di copertina “in cui si è titolati a vivere solo se perfetti. Ogni insufficienza, ogni debolezza, ogni fragilità sembra bandita. Ma c’è un altro modo per mettersi in salvo, ed è costruire, come te, Giacomo, un’altra terra, fecondissima, la terra di coloro che sanno essere fragili”.

I geni della nostra civiltà sono una grande risorsa, se i giovani trovano maestri che glieli fanno incontrare. E sanno parlare loro del Mistero dell’universo come il “fragile” poeta di Recanati.

RADICI

E poi si tratta anche di raccontare la nostra storia ai nostri figli. Dobbiamo spiegare loro che non sono una generazione di sfigati, ma che tutte le generazioni hanno dovuto lottare e sudare. Molto più di loro. E che così si sono costruite le cose grandi.

Bisogna mostrare loro – per esempio – da quali immense rovine e da quali sacrifici viene il benessere di cui – in ogni caso – oggi ancora godiamo.

Ai miei figli racconto la storia di mio padre che a 14 anni è dovuto andare a lavorare in miniera, dove è rimasto mutilato e ha rischiato la vita. Mio padre che – quando sono nato io – era rimasto disoccupato con tre figli. Ma ha lavorato duramente e ce l’ha fatta, soprattutto ad essere un uomo vero, nobile, giusto.

E racconto la storia dell’altro loro nonno, figlio di un militante socialista perseguitato durante il fascismo, una famiglia che ha lottato nella Resistenza con uno zio che fu deportato dai tedeschi a Dachau ed è sopravvissuto per miracolo, ridotto pelle e ossa, dopo aver visto l’orrore.

Sono questi i loro nonni, gli italiani semplici e grandi, che si sono rimboccati le maniche e hanno ricostruito un Paese distrutto dalla guerra e dalla dittatura facendone, in pochi anni, uno dei più prosperi al mondo.

Senza piangersi addosso, senza ripiegarsi su se stessi, ma dandosi da fare col lavoro, il sacrificio, l’intelligenza, la passione, l’inventiva, la fede in valori solidi.

Un popolo che dimentica la sua storia e le sue radici è spiritualmente morto ed è destinato a soccombere.

I nostri figli hanno diritto di sapere quanto l’uomo – dentro la fragilità della vita e le devastazioni della storia – possa essere creativo, grande e nobile. E’ il loro momento.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 11 febbraio 2017

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