E’ impossibile, è folle, è assurdo, è catastrofico… Così bloccarono l’idea centrale del programma di Silvio Berlusconi: una drastica liberazione fiscale degli italiani (due o tre aliquote, la più alta delle quali non superava il 33 per cento).

E gli stessi anatemi vengono lanciati verso Matteo Salvini che, come Lega, propone oggi la Flat tax, una tassazione unica al 15 per cento, facendo sua la proposta dell’economista americano Alvin Rabushka che fu consigliere economico di Reagan.

Ma se è davvero impossibile, folle, assurda e catastrofica perché la Flat tax viene applicata con successo in decine di Paesi?

E soprattutto perché oggi Donald Trump, per gli Stati Uniti, vara proprio la Flat tax (abbattimento drastico della tassazione sulle imprese con aliquota unica al 15 per cento)? E perché con questa misura si prospetta un vero boom economico?

E’ passato sotto un imbarazzato silenzio – qua da noi – questo primo passo della rivoluzione trumpiana. Eppure l’annuncio è stato fatto, in pompa magna, da Steven Mnuchin appena è stato nominato da Trump al Tesoro. In campagna elettorale Trump lo aveva promesso e già lo stanno facendo.

Mnuchin ha spiegato che vuole portare l’aliquota per le imprese dal 30 per cento al 15 per cento: “Sarà la più grande rivoluzione fiscale dai tempi di Ronald Reagan. Tagliando le tasse delle imprese creeremo un’enorme crescita economica”.

Portare la crescita del Pil al 4 per cento (come si prevede) significa creare tanti nuovi posti di lavoro e poi comporta crescita dei salari e degli utili per le azende. Senza che lo Stato perda gettito fiscale.

Ovviamente i dettagli e le modalità della “rivoluzione fiscale” possono variare e sono molto importanti (come pure le differenze tra un Paese e l’altro). Non ne tratteremo qui.

VERIFICA

La questione che ci interessa è – per così dire – politica: si tratta di capire se davvero funziona la filosofia di fondo della Flat tax, la quale afferma che un drastico abbattimento delle tasse (con una forte semplificazione) non porta alla bancarotta le finanze pubbliche, ma, anzi, porta all’emersione del sommerso (che non ha più convenienza ad evadere) e al rilancio degli investimenti, così da determinare addirittura un incremento delle entrate statali.

L’idea originaria risale agli anni Cinquanta ed è del Nobel per l’economia Milton Friedman, di cui Antonio Martino è stato allievo (tramite lui la proposta è diventata centrale nel programma politico berlusconiana).

Ce ne sono molte versioni. Di solito vengono citati i due esempi storici dell’America di Ronald Reagan e della Gran Bretagna di Margaret Thatcher, che però non applicarono un’autentica Flat tax, ma – di fatto – con un drastico taglio delle aliquote ottennero un raddoppio delle entrate fiscali e un rilancio dell’economia.

Quindi obiettivamente questi due casi rappresentano una conferma di quell’idea di fondo.

Fra gli esempi recenti il professor Alvin Rabushka cita la Russia “un paese che è due volte e mezzo la popolazione dell’Italia; lì una flat tax al 13 per cento è stata introdotta nel 2000. Nei sei anni compresi dal 2001-2006, le entrate, al netto dell’inflazione reale, sono quasi triplicate”.

Nel caso russo alcuni parlano addirittura di un aumento del reddito personale del 100 per cento (depurato dall’inflazione) nel quadriennio successivo all’introduzione di questo sistema fiscale.

Certo in Italia c’è il problema della progressività della tassazione sancita dalla Costituzione, ma è già stato dimostrato che questo non è un ostacolo insormontabile.

LA SOLUZIONE

Di solito si hanno altre obiezioni, come gli effetti sull’immediato di un drastico taglio delle tasse. Ma il professor Francesco Forte (economista e più volte ministro) ha scritto cose sagge in proposito, dimostrando che è possibile “fornire da subito coperture chiare e dettagliate” anche senza aspettare l’emersione dell’evasione e la ripresa, che ha i suoi tempi tecnici.

La proposta di Forte è una Flat tax con aliquota al 22 per cento ed “è frutto di calcoli basati sui dati del ministero dell’Economia e della Finanza”. L’economista spiega:

“La gente, i mercati e l’Unione Europea non crederanno mai a una proposta senza coperture, o con coperture affidate alle sole buone speranze. Io le coperture le elenco e le spiego, e immagino un sistema semplificato, ma con totale equivalenza di gettito. Se poi le entrate dovessero essere più alte, nulla vieta di diminuire l’aliquota, che è decisamente meglio del contrario”.

Dunque ci sono vie percorribili. Il governo Berlusconi nella legislatura 2001-2006 riuscì ad abbassare la pressione fiscale fino al limite minimo che sfiorava il 40 per cento.

Ma ormai occorre dare una scossa forte all’economia, perciò è necessario recuperare le varie proposte di Flat tax partorite dal centrodestra e rimodularle bene (negli anni recenti ne hanno parlato anche i Radicali italiani e la Fondazione Magna Charta).

Il “ciclone Trump” riapre la riflessione anche da noi.

QUESTIONE CENTRALE

D’altronde non si tratta affatto (solo) di una questione economica (che già sarebbe enorme, perché questo Paese, senza un’idea risolutiva, rischia di fallire).

Le tasse sono il centro vero della politica e riguardano la libertà dei cittadini (oltreché il loro portafogli). Qualunque proposta politica – sfrondata delle molte parole inutili – si può riassumere in questo: quante tasse lo stato impone al cittadino e quali servizi dà in cambio.

Non a caso la rivoluzione americana prima e poi quella francese sono scoppiate per questioni fiscali (a cui in seguito si sono aggiunte altre componenti).

Anche il sistema democratico sta appeso lì, come c’insegnano la storia della Magna Charta Libertatum, nell’Inghilterra del XIII secolo, e poi lo slogan “no taxation without representation” da cui è partita la guerra d’indipendenza e poi la democrazia americana.

Il problema però è che anche il sistema democratico si è inceppato, per tanti motivi, anzitutto perché i parlamentari invece di rappresentare gli interessi di chi li ha votati (e paga le tasse) seguono altre logiche. Nelle quali prevale lo sperpero e la cattiva spesa. “Non vi è arte di governo che un governo impari più presto da un altro che quella di cavare soldi dalle tasche della gente”, diceva Adam Smith.

Ci sono anche politici che ritengono sia una missione meritoria quella di tartassare i cittadini per distribuire poi la ricchezza nazionale a loro piacimento (o secondo la loro ideologia), cosicché si sentono perfino benefattori. Con i soldi altrui. Come diceva George Bernard Shaw “un governo che ruba a Pietro per dare a Paolo può sempre fare affidamento sul consenso di Paolo”.

Ma non è questa la giustizia fiscale e non è questa una democrazia vera.

SUDDITI O SOVRANI

Un Paese dove – ogni anno – i cittadini devono lavorare gratis per placare i voraci appetiti dello Stato fino a luglio e solo da agosto in poi possono lavorare per la propria famiglia, non ha più un popolo davvero libero.

Un Paese dove perfino la moneta – oltre alla vita dei cittadini – è gestita da entità sovranazionali, non ha più un popolo sovrano: è un Paese di sudditi.

Un Paese in cui per intraprendere, per lavorare e creare ricchezza ci si trova a che fare con uno Stato e un’Unione europea che non sono un aiuto e un supporto, ma un ostacolo e un occhiuto nemico, non può essere un Paese prospero, ma è condannato all’impoverimento e alla miseria.

Un Paese dove le tasse non hanno come corrispettivo un servizio pubblico e non sono proporzionate ad esso, ma diventano una gabella che è dovuta al Sovrano “a prescindere” dai servizi resi, in base alle “necessità” del Padrone, non è più un Paese democratico, ma somiglia a una (infingarda) tirannia.

La politica infatti definisce il rapporto fra i cittadini e lo Stato e una parte decisiva di questo rapporto riguarda le tasse. Pertanto in gioco non ci sono (solo) i nostri soldi e il futuro dei nostri figli, ma anche la nostra libertà e infine la nostra dignità.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 3 dicembre 2016

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