Da mesi, sulle prime pagine e quelle culturali dei giornali, Dante spopola. Valanghe di articoli e articolesse. Era inimmaginabile fino a pochi anni fa, ma tale prodigio non è dovuto solo al fatto che nel 2021 siamo a 700 anni dalla morte del Poeta.

Questo è solo il pretesto. La moda in realtà si sta imponendo da qualche anno (vedremo come, perché e quando è nata). Tale mania collettiva, nella società dello spettacolo, appaga forse il bisogno di sentirsi colti (riducendo l’arduo e il sublime al banale) e appaga il bisogno (inconscio o inconfessato) di ritrovare radici e senso di appartenenza a una civiltà che ha illuminato il mondo.

Ormai sui quotidiani si sfornano di continuo aneddoti danteschi, rivelando “le donne e’ cavalier, li affanni e li agi”, con i più coloriti dettagli. Non so se tutti questi “dantisti” sbocciati d’improvviso abbiano veramente letto e studiato (tutta) la Divina Commedia e conoscano la letteratura critica(Contini e Auerbach per esempio) o digerito la teologia cattolica che sta alla base del poema dantesco.

Cionondimeno si sfornano libri, articoli e ora si celebra il “Dantedì” (da quest’anno ogni 25 marzo), con letture dantesche un po’ dappertutto. Tutti si cimentano con Dante, un po’ come tutti dicono la loro sul Festival di Sanremo, sul Campionato di calcio o sul governo o sul Covid.

Era inevitabile (e anche giusto) che pure Bergoglio volesse intervenire, del resto dialoga già sulla teologia con un gigante del pensiero contemporaneo come Scalfari. Così il papa argentino ha firmato una Lettera Apostolicadedicata al Sommo Poeta, probabilmente scritta con Gianfranco Ravasi che ha appena finito di commentare il Festival di Sanremo su Twitter (il documento bergogliano si aggiunge a quelli analoghi pubblicati da due suoi predecessori, Benedetto XV nel 1921 e Paolo VI nel 1965, per altri anniversari danteschi).

Certo, il trattamento riservato dal cattolicissimo Dante a gran parte dei papi del suo tempo è pesantissimo: l’Inferno. Tuttavia ciò prova solo la libertà dei figli di Dio e quanto poco, nel medioevo, i cristiani fossero clericali (oggi non si è più cristiani, ma si è clericali).

Tornando alla Dantemania attuale, da appassionato del Poema sacro che si è diplomato nel 1978 con una tesina su Dante, che si è laureato in Filologia romanza con una tesi sulla Divina Commedia, che ha continuato a studiare Dante per decenni fino a pubblicare un libro (di recente) sul poema dantesco (è la passione letteraria della mia vita), vorrei dire che mi lascia perplesso questo cucinare il Sommo Poeta in tutte le salse.

Si è andati da un estremo all’altro nell’arco di una generazione. Il ’68 in Italia annichilì Dante nelle scuole (nonostante un formidabile saggio di Philippe Sollers che inaugurava la fortuna critica di Dante nella cultura francese Sessantottina).

Quando io arrivai al liceo, a metà degli anni Settanta, la Divina Commedia era ridotta a un grottesco moncone: sei Canti (sbirciati svogliatamente) per ogni anno del triennio. Così il Poema era assurdo e incomprensibile.

Antonello Venditti si chiedeva “se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito”, ma la sentenza dell’ideologia dominante marxista, masticata tra i giovincelli superficiali, conformisti e boriosi, era già stata emessa: un reazionario da irridere e accantonare.

Infatti fu sostanzialmente “epurato” nel sistema scolastico. La Divina Commedia era inesistente anche all’Università. Un  caso di “cancel culture”.

Il primo (meritorio) ritorno di Dante sulla scena pubblica fu dovuto alla Raiche nel 1987 affidò a Vittorio Sermonti la recitazione e il commento, alla radio, dei cento canti della Commedia (Sermonti, che concluse l’impresa nel 1992, si avvalse della collaborazione di un’autorità come Gianfranco Contini). Seguirono le sue letture pubbliche e il riscontro popolare fu impressionante.

La seconda svolta si deve ancora alla Rai. Sull’onda del successo di Sermonti infatti si inserì Roberto Benigni che il 23 dicembre 2002, su Rai 1, addirittura in prima serata, lesse e commentò il XXXIII canto del Paradiso, quello che inizia con la sublime preghiera alla Vergine. Fu un successo di pubblico strepitoso.

La riscoperta di Dante comincia da lì ed è un merito della Rai e di Benigni. Da quel momento, la stessa “cultura” di Sinistra che aveva decretato la cancellazione di Dante lo adottò, ma quasi ritenendolo la “spalla” di Benigni (come se il genio fosse quest’ultimo). E Benigni, che ha una sua innegabile capacità affabulatoria (oltre a una vera ammirazione per Dante), provvide, pian piano, a edulcorare Dante, evitando o correggendo i suoi tanti aspetti non “politicamente corretti” e sottolineando i temi d’amore con un sentimentalismo enfatizzato.

Anche nell’attuale fenomeno collettivo, che definisco Dantemania, convivono un aspetto negativo e uno positivo. Quello negativo è la rimozione delle due cose fondamentali del poema dantesco: il salvifico cattolicesimo e la fondazione dell’identità (e della lingua) italiana. Quello positivo è lo stesso, ma rovesciato: si sente, in questa riscoperta dantesca, l’infinita nostalgia (inconsapevole) del Padre e di una patria, terrena ed eterna.

In tempi in cui si bolla come deteriore “sovranismo” parlare di identità nazionale, ma si celebra Dante, è giusto ricordare le parole del laico (e antifascista) Giuseppe Antonio Borgese: “L’Italia non fu fatta da re o capitani; essa fu la creatura di un poeta: Dante. […] Non è un’esagerazione dire che egli fu per il popolo italiano quello che Mosè fu per Israele”.

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Antonio Socci

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Da Libero, 24 marzo 2021

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