Dieci anni fa l’Osservatore romano ha scritto che Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini “rimane un capolavoro, e probabilmente il miglior film su Gesù mai girato”. Martin Scorsese ha detto la stessa cosa.

Non so se è proprio così. Ma quell’opera pluripremiata, datata 1964 (quest’anno ha 60 anni), rappresenta anzitutto un dramma irrisolto, per il suo autore e per il mondo culturale italiano (laico-marxista ieri e oggi genericamente progressista) che non ha mai fatto veramente i conti con il cristianesimo.

Quale fu la genesi di quel film? Tutto nasce dalla partecipazione di Pasolini a un convegno della Pro Civitate christiana di Assisi. Lo scrittore-regista in quegli anni era un nome molto controverso, ma don Giovanni Rossi – fondatore della Pro Civitate – era un sacerdote con una grande intelligenza della fede.

Pasolini arrivò ad Assisi il 2 ottobre 1962. Dieci giorni dopo sarebbe cominciato il Concilio Vaticano II e, per una straordinaria concomitanza, la sua presenza ad Assisi coincise con il sorprendente pellegrinaggio, proprio ad Assisi, di Giovanni XXIII alla tomba di san Francesco.

Pasolini ha raccontato: “Ero ospite alla Pro Civitate Christiana d’Assisi, dove sono tornato più di una volta anche dopo, essendo quella porta sempre aperta anche a gente come me. Era il 2 ottobre 1962, stava per arrivare da Loreto Giovanni XXIII, il primo Papa che era uscito dal Vaticano e che veniva a pregare sulla tomba del Poverello per il destino del Concilio imminente… Pensavo a quel dolcissimo Papa contadino che aveva aperto i cuori e una speranza che sembrava allora sempre più difficile, e al quale si erano aperte le porte di Regina Coeli, dove era andato a ‘guardare negli occhi’ ladri e assassini, armato solo di un’immensa ed arguta pietà. Sentii anch’io, per un momento, il desiderio di alzarmi e andargli incontro, di vederlo da vicino e di guardarlo negli occhi. Ma mentre ormai le campane rombavano anche sulla mia testa, di colpo il desiderio di vederlo svanì. Mi resi conto che sarei stato un’irritante distrazione per molta gente; mi avrebbero accusato di cercare una facile pubblicità. Non mi sentivo il figliol prodigo, e per molti quel gesto sarebbe stato soltanto una sceneggiata di cattivo gusto. D’istinto allungai la mano al comodino, presi il libro dei Vangeli che c’era in tutte le camere e cominciai a leggerlo…”.

Da quella lettura sconvolgente venne l’idea del film che uscirà due anni dopo, nel 1964, con questa dedica: “Alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII” (che era morto nel 1963).

Nel discorso che papa Giovanni fece, quel 4 ottobre 1962, ad Assisi, ricordò queste parole di Gesù: Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”.

Poi il Papa commentò: “É a questi che il regno dei cieli viene promesso: e se solo a questi — dunque non ai vanitosi, né ai facinorosi — qui con San Francesco, qui siamo veramente alle porte del Paradiso. Umana sapienza, infatti ricchezze secolari, dominazione incontrastata, tutto ciò di cui il mondo si pasce sotto vari nomi — fortuna, grandezza, politica, potenza e prepotenza — tutto dinnanzi a questa dottrina si arresta e si infrange”.

Sono parole che potrebbero essere considerate il miglior commento al film di Pasolini, il quale nel giugno 1963 aveva scritto a un produttore: “Per me la bellezza è sempre una ‘bellezza morale’; ma questa bellezza giunge sempre a noi mediata: attraverso la poesia, o la filosofia, o la pratica; il solo caso di ‘bellezza morale’ non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentato nel Vangelo”.

Parole che fanno pensare a Dostoevskij secondo cui la vera Bellezza coincide con il Bene ed è quella la Bellezza che salva il mondo. Lo scrittore russo, anch’egli in una lettera, aveva scritto: “Al mondo esiste un solo essere assolutamente bello, il Cristo, ma l’apparizione di questo essere immensamente, infinitamente bello, è di certo un infinito miracolo”.

Questo incontro fra Pasolini e Gesù fu un “miracolo” casuale, un episodio anomalo rimasto isolato (e dimenticato) nel suo percorso intellettuale e umano?

Secondo Gabriella Pozzetto è il contrario. Quel film è il cuore di tutto il suo cammino. Nel libro “Lo cerco dappertutto”. Cristo nei film di Pasolini, scrive: “L’elemento sacro non si disgiunge mai da Pasolini, egli inizia nella poesia con la rappresentazione di una vita intrisa di religiosità e quando sceglie il cinema compie un percorso che ha come meta ideale l’unico grande testo sacro ispiratore della sua vita: il Vangelo”.

Poi aggiunge che quel film “è il punto focale, inconscio e conscio, di tutta la sua produzione o, meglio, della sua esistenza”.

Infine conclude: “I film prima del Vangelo sembrano fatti proprio per arrivare a questo specifico obiettivo, e i film successivi hanno la connotazione della perdita di quel riferimento, che poi è la semplice lettura della realtà senza Cristo”. Infatti “la vitalità iniziale del poeta” si trasforma negli anni “in un ‘tetro entusiasmo’ davanti alla realtà dello scenario sociale”.

La drammaticità di questa perdita, di quella mezza folgorazione sulla via di Damasco, sta tutta nella lettera che Pasolini scrisse a don Giovanni Rossi che si concludeva così: “Sono ‘bloccato’, caro Don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti. E questo posso dirlo solo oggettivandomi, e guardandomi dal suo punto di vista. Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio. La ringrazio ancora, con tutto l’affetto”.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 14 gennaio 2024

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