I giornali celebrano i 100 anni di Henry Kissinger (27 maggio) elencando i suoi meriti e gli aspetti critici del suo lavoro per l’amministrazione Usa. Spesso una discussione sul passato. Ma Kissinger continua a proporre tuttora concrete riflessioni sul presente (per esempio la guerra in Ucraina). Sempre con il pragmatismo che lo ha connotato, distante dal furore ideologico sia dei liberal che dei neocon.

Ora che parte la corsa alla Casa Bianca c’è da augurarsi che il suo realismo torni a caratterizzare la leadership Usa, almeno fra i repubblicani che sono la sua parte politica e che potrebbero esprimere il prossimo Presidente.

Il mondo infatti ha bisogno di un’America che dia il suo determinante contributo alla stabilità, alla sicurezza e alla pace con una leadership forte e capace di usare tutte le preziose risorse politiche della diplomazia (il campo in cui Kissinger eccelleva).

Ma nelle 1150 pagine del suo libro “Gli anni della Casa Bianca” (pubblicato in Italia nel 1980) c’è anche altro, c’è qualcosa che riguarda più la cultura, la mentalità, le ideologie.

Kissinger, per esempio, prende spunto dalla guerra in Vietnam e dall’opposizione che esplose negli Usa alla presenza militare in Indocina, per fare poi un’altra considerazione che sembra particolarmente attuale.

“Parecchi pensavano che questa guerra, dichiarata per opporsi a un’aggressione”, scriveva Kissinger “fosse poi assurta a simbolo d’infamia dell’America”.

Lui che negli Stati Uniti era approdato nel 1938, per sfuggire alle persecuzioni antisemite del regime nazista, aveva una gratitudineparticolare per quell’America che lo aveva accolto: “Non riuscivo ad accettare quell’odio verso se stessa che adduceva ogni imperfezione a pretesto per denigrare un esperimento prezioso la cui importanza, per il resto del mondo, era diventata parte integrante della mia esistenza… Gli sconvolgimenti intestini procurati dalle polemiche sul Vietnam furono di conseguenza motivo per me di profonda sofferenza”.

Ed ecco la sua drammatica esperienza personale: “A differenza della maggior parte dei miei coetanei, avevo fatto in prima persona l’esperienza della fragilità del tessuto della società contemporanea. Avevo constatato che l’esito più probabile della dissoluzione di tutti i vincoli sociali e dell’indebolimento di tutti i valori fondamentali non sono altro che l’estremismo, la disperazione e la violenza fine a se stessa”.

La sua conclusione è da meditare: “Un popolo non deve mai perdere la fede in se stesso; coloro che sguazzano felici nelle imperfezioni della loro società o le trasformano in una scusa per abbandonarsi a un’orgia nichilistica finiscono in genere col corrodere tutti i vincoli sociali e morali; e a lunga scadenza, col loro attacco spietato a tutte le credenze, non fanno altro che moltiplicare le sofferenze”.

Sono le considerazioni tipiche di un conservatore e che potrebbero essere accostate a quelle sviluppate oggi da Ernesto Galli della Loggia, sul “Corriere della sera” (26/4), a proposito del “conservatorismo” in Italia e in Europa.

Galli sostiene che “il compito primo di un partito conservatore” dei giorni nostri dovrebbe essere quello di mostrare la realtà “problematica e irrealistica” delle “vulgate progressiste”, indicando “le conseguenze negative a cui stiamo andando incontro a causa di scelte dettate in passato da un’eccessiva fiducia nelle ‘magnifiche sorti e progressive’”.

Non bisogna restaurare un passato, dice Galli, ma “conservare un futuro” in cui riconoscersi.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 27 maggio 2023