Alain Finkielkraut (NELLA FOTO), membro dell’ Académie française, è uno dei più autorevoli intellettuali francesi. Una voce libera da ideologie e conformismi. È nato a Parigi nel 1949 in una famiglia di ebrei polacchi sopravvissuti all’orrore di Auschwitz. Ha insegnato per decenni ed è molto presente nel dibattito pubblico sui media.

DAL ’68 A SOLZENICYN

Anche per lui tutto comincia con il maggio ’68. Nel libro “L’identità infelice” (Guanda) ha raccontato, con un po’ di ironia, quella stagione.

Stava concludendo il liceo, studiava in una casa di campagna e fu sorpreso dalle notizie che arrivavano da Parigi. Rientrò nella capitale dopo i primi scontri fra studenti e polizia e s’immerse in quegli eventi: “Niente sfuggiva alla critica, ci s’inebriava nel ripensare tutto, nel rivedere tutto, nel rifare tutto… io, che non ero mai stato politicamente impegnato, scoprii in me, come la maggior parte dei miei interlocutori, una sorprendente capacità di comprendere e di parlare l’idioma rivoluzionario. Cantavo Bella ciao manifestando in boulevard Saint-Michel, partecipavo alla redazione di manifesti, perdevo la voce nelle assemblee generali”.

Così – racconta – “arrivarono gli anni sinistrorsi della decostruzione dei valori ereditati… e dell’aspirazione a un radicale cambiamento del mondo”.

Poi accadde qualcosa: “venne la svolta antitotalitaria. Sotto l’effetto della lotta combattuta dai dissidenti in quella che era allora ‘l’altra Europa’, ci riconciliammo persino (…) col suffragio universale e i diritti dell’uomo. A un tratto capimmo che quei diritti non servivano a coprire un sistema di dominazione, come insegnava il marxismo ortodosso, ma che, dove erano in vigore, fissavano un limite invalicabile al diritto dello Stato… La lettura di Arcipelago Gulag ci insegnò quanto l’enormità del crimine fosse connessa all’ideologia, e questa rivelazione guarì molti di noi dall’arroganza intellettuale”.

Così “a poco a poco ci risultò evidente la dose di commedia nascosta dietro il nostro impegno quando indossavamo i panni dei rivoluzionari”.

Oggi Finkielkraut è uno degli osservatori più realisti e più acuti del presente e del fallimento politico francese ed europeo che nei giorni scorsi è esploso nelle piazze d’oltralpe con manifestazioni violente.

PROFETICO

Il suo libro “L’identità infelice” uscì in Francia nel 2013 e già metteva sul tavolo tutti i problemi diventati in questi giorni dirompenti che per anni si sono negati e non si sono affrontati: l’emigrazione di massa, l’identità delle nazioni europee, il conformismo del “politicamente corretto”, la disputa francese sulla laicità, la questione islamica, il fallimento dell’integrazione, “la violenza nei quartieri definiti sensibili”, la catastrofe educativa di famiglia e scuola, il disastro della politica.

Centrale è il tema dell’identità nazionale, ma scatena polemiche anche solo proporlo e discuterne.

Finkielkraut ricorda che, sconfessando una definizione di De Gaulle che oggi apparirebbe assai di destra, il ministro Éric Besson, nel 2010, dichiarò: “La Francia non è né un popolo, né una lingua, né un territorio, né una religione, è un agglomerato di popoli che vogliono vivere insieme. Non esistono i francesi di stirpe, esiste soltanto una Francia meticcia”.

Ma – spiega Finkielkraut – perfino le sue parole suscitarono l’indignazione progressista: “Perché l’identità nazionale, per quanto lacerata con cura, per quanto epurata delle sue qualità distintive e ridotta a un catalogo di negazioni, era ancora troppo”.

Ma allora cos’è la Francia?

 

 Antonio Socci

 

Da “Libero”, 8 luglio 2023

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