USARE IL TERMINE “NEGAZIONISTA” PER TUTTI I TEMI CHE NON C’ENTRANO CON LA SHOAH “RELATIVIZZA LA MEMORIA E SVILISCE LA STORIA” (RUTH DUREGHELLO)
L’intossicazione ideologica del ’68 prosegue. Oggi, per esempio, si avvelena il dibattito pubblico con l’epiteto “negazionista” per delegittimare chiunque abbia opinioni diverse da quelle della sinistra sul clima.
Eppure già nel 2020 Ruth Dureghello, come presidente della comunità ebraica di Roma, pronunciò parole dure, che sono state totalmente snobbate, contro questa deriva. Ecco la sua dichiarazione: “Faccio un appello a partiti politici e giornali: negazionismo, lager e campi di concentramento usiamoli per indicare il concetto originario per cui sono destinati. Altrimenti si relativizza la memoria e si svilisce la storia”.
A sinistra hanno fatto orecchie da mercante. Il termine “negazionista” ormai dilaga, viene usato ogni giorno, anche dai media, come una clava – quando non hanno argomenti – per mettere a tacere chi espone ragioni che non sanno confutare.
Il professor Massimo D’Antoni, economista (di sinistra), è fra i pochissimi ad aver reagito a questa situazione. Ha scritto in un tweet: “Proposta: una moratoria, smettiamo di abusare del termine negazionismo. Usarlo al di fuori del suo reale significato è una forma di ‘reductio ad hitlerum’ ed è anche offensivo verso le vittime della shoah. Mi rivolgo soprattutto ai molti intellettuali presenti su questo social”.
Anche il suo appello cadrà nel vuoto. I “molti intellettuali presenti” su twitter contribuiscono in genere alla demonizzazione dell’avversario. Perché è molto più comodo chiudere la bocca a un interlocutore che proporre argomenti che lo confutino.
Come negli anni Settanta. Chiunque abbia frequentato il liceo o l’università in quell’epoca ricorderà che la sinistra pretendeva il monopolio del microfono. Se qualcuno dissentiva in genere veniva bollato come “fascista” (senza alcuna ragione) e veniva “ipso facto” silenziato.
“Il più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere (e ne raccomandiamo agli esperti la più accurata descrizione e catalogazione) è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è”.
Questo pensiero di Leonardo Sciascia (che si trova alla pagina 50 del libro “Nero su nero” edito da Adelphi) descrive l’atmosfera ammorbata di quel tempo. Il malcapitato che veniva bollato come “fascista” – oltre a perdere il diritto di parola – spesso si beccava insulti e pure di peggio.
Oggi sono passati gli anni, ma non i sessantottini, seppur invecchiati. Soprattutto non è passata l’intolleranza di quella sinistra che – almeno dopo aver visto crollare nella vergogna i suoi mitici regimi del socialismo reale (ignobili e disumane dittature) – avrebbe dovuto imparare un po’ di umiltà e di tolleranza.
Invece resta l’arroganza. Anche chi non ha fatto in tempo, per ragioni generazionali, ad essere comunista ed è genericamente “di sinistra” ha ereditato spesso la pretesa di delegittimate l’interlocutore che dissente.
Tanto che oggi qualche parlamentare pretenderebbe addirittura di trasformare in reato il “negazionismo climatico”. E naturalmente dovrebbe essere lui – o meglio è il soviet supremo del politicamente corretto – a stabilire quando si incorrerebbe in tale “colpa”.
Perché l’epiteto è di per sé una parola vuota: cosa negherebbe il negazionista climatico? Chiunque non ripeta pedissequamente le tesi apocalittiche è automaticamente un “negazionista”?
Se solo si accettasse un confronto civile, fra persone che cercano la verità (come sempre dovrebbe accadere), si constaterebbe che nessuno nega che il clima stia cambiando (tesi che sarebbe comunque lecita, sebbene bislacca), ma si discute l’idea secondo cui è in corso un’emergenza e il dogma per cui sarebbero le attività umane a determinare il clima (ci sono fior di scienziati e anche premi Nobel che lo negano o ritengono tale tesi non dimostrata).
A ben vedere l’accusa di “negazionismo” potrebbe essere tranquillamente rovesciata sui fanatici climatisti i quali negano che il clima sia sempre cambiato, che sia in continuo cambiamento e che sempre cambierà.
Basta scorrere i grafici sugli ultimi mille anni o addirittura sugli ultimi diecimila anni che sono riportate anche alle pagine 157 e 158 del libro “Dialoghi sul clima” per rendersi conto dei ciclici cambiamenti naturali del clima che spiegano perché – ad esempio – nel Medioevo faceva più caldo di oggi.
Ci sono molte altre ragioni per cui si possono avanzare dubbi sulla narrazione dominante. Per esempio, è discutibile trattare la CO2 come “nemico pubblico” dal momento che non è un inquinante, ma è la base della vita ed è all’origine dell’aumento delle foreste e della maggiore produttività agricola.
Gli scienziati inoltre discutono sul fatto che il piccolo aumento della temperatura registrato negli ultimi cento anni (con periodi stazionari o addirittura di diminuzione) sia di per sé negativo. È inoltre contraddetta dai dati la tesi per cui tale riscaldamento produca desertificazione, più uragani ed eventi estremi. Infine è dimostrato che è soprattutto l’attività solare a determinare le mutazioni climatiche sulla terra, insieme ad altri fattori naturali.
Sono tanti gli aspetti discussi dalla comunità scientifica. L’allarmismo per imporre politiche emergenziali, come dogmi di fede, non è accettabile.
Ci sono colossali investimenti – e colossali interessi economici – a sostegno delle politiche green, ma non è una ragione bloccare il dibattito scientifico. Anzi… La scienza è ricerca continua e non tollera dogmi.
Non si può fermare nemmeno il dibattito politico perché quelle politiche green, in cui la UE si è buttata a capofitto, hanno costi salatissimi per i popoli e rischiano di portare alla de-industrializzazione e a un futuro di povertà.
Proprio l’enormità degli interessi (di tutti) in gioco esige il massimo di dibattito e di valutazione critica, non i bavagli (che sono peraltro proibiti della Costituzione vigente).
Antonio Socci
Da “Libero”, 23 luglio 2023
Il grafico riprodotto nella foto è tratto dal libro “Dialoghi sul clima” (Rubbettino)