Al Simposio sul sacerdozio, concluso ieri in Vaticano, si respirava un clima triste, pesante perché è il sacerdozio cattolico è sotto attacco: per gli scandali e certe campagne mediatiche, ma anche per le pressioni del Sinodo tedesco e per la crisi delle vocazioni.

Il Papa, intervenendo, invece di discutere di teorie ha parlato di quei preti che, con la loro vita e la loro testimonianza, fin dalla mia infanzia mi hanno mostrato ciò che dà forma al volto del Buon Pastore”.

Così ha espresso ciò che gran parte dei cristiani (compreso chi scrive, ma anche tanti non credenti) avrebbero testimoniato: la presenza buona di tantissimi sacerdoti incontrati nel corso degli anni, la cui umanità ha permesso di vedere e toccare con mano l’umanità di Gesù.

Fra l’altro è il centenario della nascita di un grande sacerdote, don Luigi Giussani, che proprio negli anni rivoluzionari del ’68, in cui la Chiesa sembrava alla fine, ha fatto innamorare di Gesùmigliaia di giovani, sottraendoli all’inganno delle ideologie e incidendo sulla storia del nostro Paese e nella storia della Chiesa.

Il papa ha spiegato: “sono arrivato alla conclusione che la miglior parola nasce dalla testimonianza che ho ricevuto da tanti sacerdoti nel corso degli anni. Ciò che offro è frutto dell’esercizio di riflettere su di essi, riconoscendo e contemplando quali erano le caratteristiche che li distinguevano e davano ad essi una forza, una gioia e una speranza singolari nella loro missione pastorale”.

EROISMO

Ci siamo abituati alla presenza dei preti, sappiamo che a loro tutti possono ricorrere per trovare misericordia, ascolto e aiuto. Ma anche per trovare ragioni di vita, sapienza e luce. Lo diamo per scontato, senza nessuna gratitudine. Come se fosse normale che ci sia chi rinuncia alla propria vita per gli altri.

A volte il loro è un eroismo che resta sconosciuto, perfino quando è straordinario. Chi ricorda, per esempio, don Giuseppe Diana?

Tutti conoscono Roberto Saviano per il suo “Gomorra”. Ma pochi hanno compreso che il vero eroe di quel libro è un sacerdote cattolico: don Giuseppe Diana. Perfino il titolo viene da lui, come ha raccontato lo scrittore: Don Giuseppe Diana in un’omelia disse: ‘non rendiamo questa terra la Gomorra del Paese’. Avevo sedici anni. Il sacerdote fu ucciso dai Casalesi, io fui ispirato per scrivere il libro”.

Don Diana non era un politico o uno scrittore o un personaggio pubblico, non cercava notorietà personale. Era semplicemente un sacerdote cattolico che cercava di amare il suo popolo come lo amava Gesù e si comportava da sacerdote: per questo fu ucciso nel 1994. Giovanni Paolo II ne parlò all’Angelus con parole toccanti.

Così per il palermitano don Pino Puglisi, riconosciuto beato e martire dalla Chiesa: Don Puglisi” ha detto papa Francesco “è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo vissuto li sottraeva alla malavita e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà però è lui che ha vinto con Cristo risorto”.

Per tanti sacerdoti l’eroismo è la dimensione della vita, ma ci sono tanti eroismi. Spesso silenziosi e invisibili o non riconosciuti. La dedizione alla propria missione, che induce a rinunciare a tutto per amore di Cristo e dei fratelli, è eroismo anche quando non c’è il martirio.

Ma in fondo oggi è eroica la stessa scelta del sacerdozio. Un giovane, in genere laureato, che rinuncia ad avere una sua famiglia, una carriera professionale, una propria vita, per servire gli altri, per servire una comunità, per amore di Cristo, fa una scelta eroica.

Ancora di più oggi che il prete non è – come nel passato – una figura socialmente rispettata, ma spesso è una categoria irrisa. Perfino disprezzata.

UNO STRANO CASO

Eppure viviamo nel tempo della suscettibilità universale. “Basta un niente: una canzone di cinquant’anni fa, un film ambientato a metà dell’Ottocento, una battuta di oggi – eccola che arriva, l’indignazione di giornata, passatempo mondiale, monopolizzatrice delle conversazioni e degli umori”.

Guia Soncini, nel suo libro “L’era della suscettibilità” fotografa bene il momento attuale, in cui domina per tutti il diritto di offendersi e il dovere di indignarsi. Basta sbagliare anche solo un pronome e si finisce alla gogna. “Nessun misgendering (chiamare qualcuno con pronomi che non sono quelli che si è scelto) resterà impunito”, scrive sarcasticamente l’autrice parlando dell’ideologia woke.

Ma c’è almeno una categoria umana che sembra si possa bersagliare liberamente, quantomeno con l’ironia e le malignità, senza che nessuno si indigni e senza che neppure i bersagliati si difendano: i preti.

Non lo si nota perché nessuno se ne lamenta, sebbene per loro sia doloroso: nella Chiesa non è praticato il vittimismo (non lo si pratica nemmeno per i tanti casi di persecuzione e martirio – documentati nel mondo – che fanno dei cristiani probabilmente il gruppo umano più perseguitato). Specialità della casa, casomai, è il “mea culpa” non il vittimismo.

Ma chi osserva con attenzione i media e la rete se ne rende conto. In genere (e da tempo) i cattolici e la Chiesa, nel loro insieme, sono bersaglio di irrisione o di “provocazioni culturali”, che naturalmente non si fanno nei confronti di altre religioni.

Ma in particolare per la categoria dei preti ultimamente prevale una certa durezza e un’ingiusta generalizzazione per gli scandali relativi alla pedofilia. Come se questa terribile piaga riguardasse in modo specifico i sacerdoti cattolici.

In realtà non è così. Il sociologo Philip Jenkins, fra i maggiori studiosi delle religioni a livello mondiale, in una serie di libri (Pedophiles and Priests. Anatomy of a Contemporary Crisis, Oxford University Press; Moral Panic. Changing Concepts of the Child Molester in Modern America, Yale University Press; The New Anti-Catholicism. The Last Acceptable Prejudice, Oxford University Press) ridimensiona le proporzioni del fenomeno fra i preti e sottolinea che nel clero di altre religioni (non celibe) o in altre categorie professionali ci sono percentuali simili di casi.

Ma questo è un argomento che la Chiesa (giustamente) non usa mai perché reputa che anche un solo caso fra i sacerdoti è troppo, è insopportabile e suscita l’umiliazione e il mea culpa di tutta la Chiesa. Tuttavia fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce.

QUELLA LUCE

Al di là della cronaca allora bisognerebbe comprendere cos’è il sacerdozionella vita degli uomini e nella storia del mondo.

Giorni fa mi trovavo nella basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Era deserta. Guardavo gli stupendi capolavori dipinti sulle pareti e d’improvviso mi accorsi che qualcuno c’era: una luce accesa in un confessionale e un frate in attesa.

Ecco la Chiesa: è il “Padre misericordioso” della parabola evangelica che sta sulla soglia e freme in attesa di poter perdonare il figlio perduto, qualunque cosa abbia fatto. Un immenso abbraccio di tutte le miserie umane. E’ un mare di misericordia per tutti.

Lì vicino è esposto il saio di frate Francesco. Da mendicante. Francesco era diacono (il primo grado del sacramento dell’ordine) e baciava le mani di qualunque prete, per quanto sgangherato, perché quelle mani – diceva – consacrano il Corpo e sangue di Cristo. Poveri uomini che salvano il mondo.

Del resto portava il saio francescano anche il primo sacerdote stigmatizzato come lui, un grande santo del Novecento: padre Pio da Pietrelcina.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 20 febbraio 2022

(Nella foto: un’immagine dal film The Mission)

 

 

 

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