Non è un caso che la polemica politica sia esplosa al Salone del libro di Torino, perché – per la Sinistra postcomunista italiana – la cultura (come pure l’informazione) non è altro che la politica fatta con altri mezzi.

È dunque rivelatore l’irrompere esplicito della politica al Salone, ma soprattutto è emblematico il suo irrompere nella (vecchia) chiassosa forma dell’intolleranza contro chi – come Eugenia Roccella – ha un pensiero diverso da quello dominante.

Infatti la forma che l’egemonia della Sinistra assume quando la stessa Sinistra è al governo è quella del “pensiero unico” che non lascia spazi e non riconosce legittimità a visioni diverse. Quando poi al governo va il centrodestra e nel discorso pubblico cominciano a entrare narrazioni diverse, quella pretesa egemonica si manifesta come intolleranza esplicita verso il pensiero non allineato (specialmente cattolico), puntualmente bollato come “fascista” (infatti gli slogan risuonati a Torino erano: “Fuori Roccella dal Salone” e “Fuori i fascisti dal Salone”).

È un fenomeno che conosciamo da decenni. Chiunque abbia fatto il liceo o l’università negli anni Settanta ricorderà che qualunque agorà era egemonizzata da gruppi estremisti di sinistra che si ritenevano in diritto di decidere chi poteva parlare e chi non poteva.

Lo sconcertante commento di Elly Schlein sul caso di Eugenia Roccella, a cui è stato impedito di presentare il suo libro, è esattamente l’aperta teorizzazione di questa pretesa cinquant’anni dopo: “In una democrazia si deve mettere in conto che ci siano il dissenso e le contestazioni”, ha detto e poi ha sostenuto che il governo “non tollera il dissenso” ed è quindi “autoritario”.

Dunque la segretaria del Pd non ha espresso solidarietà alla Roccella(anzi ha rovesciato la frittata pretendendo di far passare chi è stato messo a tacere come autoritario), non ha condannato l’atteggiamento dei contestatori e in pratica ritiene una legittima manifestazione di “dissenso” la chiassata che ha impedito alla Roccella di parlare. Ciò però significa legittimare l’intolleranza attribuendole il diritto di decidere sulla libera manifestazione del pensiero altrui.

La dichiarazione della Schlein sull’episodio torinese segna una regressione politica, esprime una mentalità da Centri sociali o da anni Settanta (non a caso Renzi, ex segretario del Pd, di un altro Pd, ha detto l’esatto contrario: “Impedire alla ministra Roccella di parlare significa negare i valori della cultura, del dialogo e del rispetto” è “il fascismo degli antifascisti”).

In fin dei conti la Schlein non ha fatto altro che esprimere il pensiero dell’establishment che oggi governa media e accademia. Infatti la generazione che negli anni Settanta si arrogava il diritto di decidere chi poteva parlare poi in buona parte è diventata classe dirigente e – alla guida di accademie e media – ha spesso costruito un pensiero uniforme a cui è difficilissimo opporre un diverso orientamento.

D’altra parte sui giornali di ieri non si trovavano voci intellettuali e politiche della Sinistra che criticassero la Schlein e difendessero la Roccella. Io, almeno, non le ho reperite.

Si obietterà che negli anni Settanta tutto avveniva in forza di un’ortodossia – l’ideologia comunista – a cui ci si doveva uniformare e che oggi ha lasciato il posto a un’agenda confusa e pure contraddittoria. Però è comunque un’agenda con un pensiero dogmatico che si pretende di imporre come unico legittimato, anche in modo intollerante.

Quella vecchia pretesa di egemonia persiste perché il suo schema fondativo è quello gramsciano e permane valido. Infatti l’egemonia teorizzata da Gramsci (e poi realizzata da Togliatti) non ha solo il pilastro del marxismo, ma anche – e soprattutto – quello del Partito, cioè dell’apparato e dell’organizzazione (che è anzitutto organizzazione della cultura e della società).

È proprio ciò che è rimasto in piedi dopo il crollo del Muro di Berlino e il cambiamento del nome del Pci. È al Partito – nell’accezione più vasta – che Gramsci attribuisce la funzione totalizzante del Principe di Machiavelli.

Ecco le sue parole: “Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe” proseguiva Gramsci “prende il posto, nelle coscienze,  della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume”.

Quindi il Partito-Principe si pone – come arbitro del bene e del male in base a “ciò che serve a incrementare il suo potere”al posto della divinità e “dell’imperativo categorico” kantiano così spazzando via non solo la religione, ma anche la morale kantiana (con il diritto naturale) che è la base filosofica del pensiero laico del Novecento: non a caso Norberto Bobbio, nel 1981, si pronunciò contro l’aborto non in base ai principi cattolici, ma in base ai principi laici della morale kantiana.

Nella Sinistra, abbandonato il nome “comunista” e l’ideologia marxista, è rimasta la continuità di una classe dirigente, di un apparato e di una presenza egemone, nella società, nei media e nelle accademie.

Per arrivare e per restare al potere questa realtà, erede del “moderno Principe” gramsciano, non ha esitato a far sue perfino le parole d’ordine della vincente Globalizzazione e del Mercato (i postcomunisti infatti sono diventati liberisti negli anni Novanta, ma non liberali).

Ancor più facilmente questa Sinistra abbraccia le parole d’ordine del laicismo nichilista e relativista delle élite occidentali. Il legame col popolo del vecchio Pci è stato sostituito dal legame con certe élite individualiste. Ma è rimasta la pretesa del moderno Principe di incarnare il Bene e di considerare chi ha idee opposte come il Male.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 22 maggio 2023

 

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