“La situazione politica in Italia è grave, ma non seria”, diceva Ennio Flaiano. Tanto più possiamo dirlo in questi mesi, sospesi come siamo fra la gravità della pandemia e lo spettacolo surreale offerto da questa classe di governo.

Forse per questo uno degli autori più citati – fra gli osservatori non conformisti – a commento delle cronache è stato Trilussa, il famoso poeta satirico romano di cui, fra l’altro, ricorre quest’anno il 70° anniversario della morte. Gli spunti di cronaca sono stati tanti.

Il Capo del governo, Giuseppe Conte, dopo essersi specchiato più volte in Winston Churchill e nell’epica dimensione del grande statista durante la Seconda guerra mondiale, ha detto e ripetuto a reti unificate, con enfasi: “Stiamo scrivendo una pagina di Storia”.

Così Marcello Veneziani ha demolito quell’autoesaltazione evocando per lui non Churchill, ma “la lumachella della vanagloria” – appunto – di Trilussa:

 

“La Lumachella della Vanagloria,

ch’era strisciata sopra un obbelisco,

guardò la bava e disse: Già capisco

che lascerò un’impronta ne la Storia”.

 

Altrettanto corrosivo – dopo le lacrime del ministro dell’agricoltura Bellanova per la sanatoria dei migranti – Daniele Capezzone ha vergato un tweet: “Per Conte, Bellanova e co, l’immortale Trilussa sulle lacrime in politica: ‘Pianse così bene che quasi ce rideva pure lui’ ”. Il titolo della poesia citata è “La sincerità ne li comizzi” e si conclude proprio così:

 

“Eppoi parlò de li principi sui:

e allora pianse: pianse così bene

che quasi ce rideva puro lui”.

 

Un’implicita evocazione trilussiana era contenuta anche nei tweet di Vittorio Feltri che – durante la vicenda Covid – per ironizzare sulla proibizione di darsi la mano, ha vergato una serie di tweet in cui elogiava le qualità igieniche del saluto romano (precisando che era appunto degli antichi romani, ben prima del fascismo e aggiungendo pure – per lo stesso motivo – l’elogio del saluto a pugno chiuso comunista).

Trilussa – che non fu mai fascista durante il ventennio – faceva dell’umorismo sul saluto romano con argomenti “sanitari” che sembrano anticipare alla lettera le norme governative di oggi:

 

“Quela de dà la mano a chissesia

nun è certo un’usanza troppo bella:

te po succede ch’hai da strigne quella

d’un ladro, d’un ruffiano o d’una spia.

Deppiù la mano, asciutta o sudarella,

quanno ha toccato quarche porcheria,

contiè er bacillo d’una malattia

che t’entra in bocca e va ne le budella.

Invece, a salutà romanamente,

ce se guadagna un tanto co’ l’iggene

eppoi nun c’è pericolo de gnente.

Perché la mossa te viè a di’ in sostanza:

– Semo amiconi… se volemo bene…

ma restamo a una debbita distanza”.

 

L’abbondante produzione letteraria di Trilussa offre la possibilità di rileggere molti altri fatti e fenomeni di attualità, sempre con lo sguardo ironico, anticonformista e disincantato del poeta di Trastevere.

Divertente è “La libbertà de pensiero” che sembra anticipare l’attuale regime politically correct. Il “Gatto bianco” è il presidente del “circolo der Libbero Pensiero” e quando sentì che “un Gatto nero/libbero pensatore come lui,/je faceva la critica” si risentì:

 

“Giacché nun badi alli fattacci tui

– je disse er Gatto bianco inviperito –

rassegnerai le propie dimissione…

ché qui la poi pensà libberamente

come te pare a te, ma a condizione

che t’associ a l’idee der presidente

e a le proposte de la commissione!

– E’ vero, ho torto, ho aggito malamente…-

rispose er Gatto nero.

E pe’ restà nel Libbero Pensiero

da quela vorta nun pensò più gnente”.  

 

Innumerevoli i versi di satira sulle furbe commistioni fra clericali e anticlericali:

 

“Oggi che la coscenza nazzionale

s’adatta a le finzioni de la vita,

oggi ch’er prete è mezzo libberale

e er libberale è mezzo gesuita,

se resti mezza bianca e mezza nera

vedrai che t’assicuri la cariera”.  

 

Sotto il titolo “La Giustizia aggiustata” si legge poi questa triste poesia che fa riflettere:

 

“Giove disse a la Pecora: Nun sai

quanta fatica e quanto fiato sciupi

quanno me venghi a raccontà li guai

che passi co’ li Lupi.

E’ mejo che stai zitta e li sopporti.

Hanno torto, lo so, nun c’è questione:

ma li Lupi so’ tanti e troppo forti

pe’ nun avè raggione!”.

 

Memorabili i versi satirici di Trilussa sulle varie categorie: il politico, il ministro, i giornali, il moralista, il sindacalista, l’umanitario, i personaggi famosi, i trasformisti e i cortigiani.

C’è pure la satira sul “partito intransigente”. Un giorno un Sovrano decise di licenziare il suo celebre Buffone, che pure lo divertiva, e quello protestò:

 

“E quanno m’hai cacciato

chi farà divertì la monarchia?

chi farà ride er capo de lo Stato?

Er Sovrano rispose: Per adesso

me basta quer partito intransiggente

che me combatte cor venimme appresso

e m’alliscia rispettosamente…

Tu nun me servi più: rido lo stesso!”.  

 

E siccome la storia ripropone sempre certi costanti temi di geopolitica, capita di imbattersi – per esempio – in una poesia di Trilussa che, nel 1916 (durante la prima guerra mondiale), sbeffeggiava la smania imperialistica della Germania.

La poesia – a dire il vero – s’intitola “L’Internazionale tedesca” e c’era un motivo per cui prendeva di mira il partito socialista tedesco che viene definito dei “socialisti del Kaiser” (come dice la nota dell’edizione mondadoriana di “Tutte le poesie”). Infatti la satira si apre con

 

“un tedesco che girò l’Europa

con un cartello e un fazzoletto rosso

attaccato in un manico de scopa.

Er cartello diceva: ‘Proletari!

La patria è er monno! Dunque date addosso

a chi vo fa’ le spese militari.

Se volete la pace universale

bisogna ch’abbolite ogni frontiera.

Venite tutti sotto ‘sta bandiera

che canteremo l’Internazionale’.

Quanno er tedesco ritornò ar paese

agnede a casa de l’Imperatore

pe’ fasse rimborsà tutte le spese.

’Be’ – dice – com’è annata?’ – ‘Bene assai!

La propaganda ha fatto un gran furore.

Dio! Quanti fessi! Nun credevo mai!

E l’ho lasciati tutti co’ la smania

d’unì le patrie in una patria sola…

E, in questo, je mantengo la parola

perché faremo tutta una Germania”.

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Antonio Socci

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Da “Libero”, 24 maggio 2020

 

 

 

 

 

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