“In principio era il Verbo, alla fine le chiacchiere”. L’aforisma di Stanislaw Lec sembra adatto al Sinodo appena iniziato che è stato definito “il Concilio di Francesco”.

Basti dire che quello cominciato il 10 ottobre a Roma e ieri, in tutte le diocesi cattoliche del mondo, è un Sinodo sulla “sinodalità”. Un tema che sembra un cortocircuito, soprattutto se si pensa che papa Bergoglio, fin dall’inizio, ha (giustamente) tuonato contro la Chiesa “autoreferenziale”, cioè la Chiesa che si occupa di se stessa.

Adesso proprio lui ha deciso un Sinodo sul Sinodo che “si articolerà in tre fasi, tra l’ottobre del 2021 e l’ottobre del 2023, passando per una fase diocesana e una continentale, che daranno vita a due differenti Instrumentum Laboris, fino a quella conclusiva a livello di Chiesa Universale”.

E non è finita, perché tale Sinodo universale – che abbraccia tre anni – si interseca con l’esplosivo Sinodo della Chiesa tedesca e con il cammino sinodale della Chiesa italiana, che è cominciato a maggio e si concluderà nel 2025, nonché con i Sinodi locali che sono iniziati in diverse importanti diocesi.

Davanti alla montagna di documenti che saranno partoriti da tutte queste chiacchiere sinodali potremmo dire – restando al Prologo del Vangelo di Giovanni – “e il Verbo si fece carta”.

Ma, fra tanta carta, cosa resterà del Verbo? Dove gli uomini del XXI secolo troveranno concretamente il consolante abbraccio del Figlio di Dio, il vero Samaritano che comprende, sostiene, guarisce le ferite e salva? A quale angolo di strada si trova la compassione di Dio? A quale indirizzo reale si può incontrare? Con quale volto?

Perché questo è il dramma del tempo che viviamo e della Chiesa: non solo gli scandali, il crollo di vocazioni, ma la radicale scristianizzazionedell’antica cristianità e la drammatica “emergenza antropologica” per cui – come hanno spiegato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – si stanno spazzando via pure le basi naturali delle civiltà su cui si è innestato l’annuncio cristiano.

Se solo si pensa all’enfasi con cui – all’inizio di questo pontificato – si parlò con velleitario trionfalismo di “effetto Bergoglio”, confondendo il consenso dei giornali laicisti con la messe evangelica, si può capire la cocente delusione della Chiesa che oggi si ritrova – al tramonto di questo pontificato – a temere la propria stessa fine.  

E non servono certo i proclami sociali – anzi socialisti – di papa Bergoglio. Ieri la prima pagina di “Avvenire” era impressionante: “Giustizia per i poveri. Papa Francesco chiede reddito minimo, orario di lavoro ridotto, cure e vaccini anti-Covid a tutti. ‘In nome di Dio, rimettete di debiti ai Paesi in crisi, fermate le armi e non distruggete l’ambiente’”.

Al di là del merito delle singole rivendicazioni, questa Chiesa che – da otto anni – fa il mestiere della Cgil e dell’Onu, non ha convertito nessun “lontano”, nessun “compagno”, mentre – in compenso – ha perso per strada i vicini e tanti figli, dimenticando di fare il mestiere suo: annunciare – appunto – il Verbo di Dio, Gesù Cristo unico salvatore del mondo e la vita eterna.

Serve a poco – e appare illusoria – anche l’enfasi con cui è stato varato questo Sinodo da monsignor Piero Coda – segretario generale della Commissione teologica internazionale – secondo cui è “l’avvenimento ecclesiale più importante dopo il Concilio Vaticano II”.

Ha aggiunto: “per la prima volta in duemila anni di storia della Chiesa, un Sinodo è chiamato a coinvolgere tutto il Popolo di Dio”.

In realtà è la solita auto-occupazione del mondo clericale il cui scopo reale (insieme ai sinodi italiano e tedesco) sembra essere il superamento definitivo dei pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI per entrare nel deserto di una Chiesa senza più identità, né futuro.

Tutto questo mentre in Vaticano si susseguono le nomine che fanno pensare al Conclave vicino e si parla di un nuovo concistoro con la nomina di altri cardinali per “blindare” il voto su un prossimo papa progressista.

Dunque i Sinodi sono inutili? Di per sé no. Monsignor Massimo Camisasca, in un bell’articolo su “Avvenire”, ha spiegato che nella tradizione della Chiesa “sinodo” vuol dire “camminare assieme” e quindi accogliersi reciprocamente, nelle tante diversità, e soprattutto accogliere il Salvatore convertendosi e annunciandolo al mondo.

Ma concretamente i Sinodi sono oggi diventati altra cosa e soprattutto diverso è l’orizzonte e lo scopo di quelli in corso: la pretesa di “fare” una diversa chiesa.

Su questa tentazione pronunciò parole definitive, anni fa, Joseph Ratzinger: “Siccome la Chiesa non è così come appare nei sogni, si cerca disperatamente di renderla come la si desidererebbe… Come nel campo dell’azione politica si vorrebbe finalmente costruire il mondo migliore, così si pensa, si dovrebbe finalmente metter su anche la Chiesa migliore”

Solo che “tutto ciò che una maggioranza decide può venire abrogato da un’altra maggioranza. Una Chiesa che riposi sulle decisioni di una maggioranza diventa una Chiesa puramente umana. Essa è ridotta al livello di ciò che è plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni ed opinioni. L’opinione sostituisce la fede”.

Ratzinger concludeva: “noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo far conoscere quanto ha fatto lui. La Chiesa non comincia con il ‘fare’ nostro, ma con il ‘fare’ e il ‘parlare’ di Dio. Così gli Apostoli non hanno detto, dopo alcune assemblee: adesso vogliamo creare una Chiesa, e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione. No, hanno pregato e in preghiera hanno aspettato, perché sapevano che solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, che Dio è il primo agente: se Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti”.

Può sembrare che Ratzinger consigli la passività, ma è il contrario. E c’è una prova storica. Negli anni del post-concilio e dopo il ’68, la Chiesa visse una crisi analoga a quella di oggi. Lo smarrimento fu enorme, migliaia di preti abbandonarono l’abito, il mondo cattolico era allo sbando dietro alle ideologie più in voga.

In Italia i vescovi pensarono di affrontare la crisi con il convegno ecclesiale di “Evagelizzazione e promozione umana”, ma lo smarrimento aumentò e Paolo VI visse gli ultimi mesi sentendosi in una situazione apocalittica.

Confidò a Jean Guitton: C’è un grande turbamento in questo momento nel mondo e nella Chiesa, e ciò che è in questione è la fede. Capita ora che mi ripeta la frase oscura di Gesù nel vangelo di san Luca: ‘Quando il Figlio dell’uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra?’… Rileggo talvolta il vangelo della fine dei tempi e constato che in questo momento emergono alcuni segni di questa fine. Siamo prossimi alla fine?”.

Sembrava la fine almeno della Chiesa. Poi d’improvviso una sera di ottobre arrivò il ciclone Wojtyla e tutto cambiò, anche con l’esplosione dei movimenti, “la primavera della Chiesa”.

Come diceva Ratzinger, sono sempre stati i santi a rinnovare la Chiesa, mai i riformatori. Grazie all’azione misteriosa dell’unico che conosce la via per uscire dal sepolcro.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 18 ottobre 2021