BIDEN: DALLA DISASTROSA FUGA DALL’AFGHANISTAN ALLA CACCIATA DA PARTE DELL’ARISTOCRAZIA DEM. NEL MEZZO UNA SEQUELA DI ESILARANTI “AMNESIE” E LA PROPAGANDA DEI MEDIA
L’epoca Biden finisce (male) come è cominciata. Era iniziata infatti con la catastrofica e sgangherata uscita dall’Afghanistan. Il modo in cui quel popolo fu di colpo abbandonato ai talebani – con una partenza delle truppe Usa che sembrò a tutti una fuga – dette al mondo una tale impressione di debolezza, confusione e inaffidabilità della superpotenza – come leader planetaria – da indurre i suoi avversari illiberali a occupare spazi.
Da qui l’esplodere di conflitti (anzitutto in Ucraina e Medio Oriente) che hanno fatto montagne di morti, che ci hanno portato alla soglia di una terza guerra mondiale, che hanno provocato la saldatura fra Russia e Cina e hanno disastrato le economie, anzitutto quelle dei paesi europei.
La fase finale della presidenza Biden – con la penosa ed esilarante diatriba sulle sue amnesie – e poi il suo discorso sulla rinuncia alla candidatura, hanno mostrato al mondo la crisi di una grande democrazia.
Anzitutto Biden – dopo aver ripetuto fino a pochi giorni fa “mi ritirerei soltanto se un medico me lo ordinasse per un grave problema di salute” – l’altro ieri ha detto l’esatto contrario davanti a milioni di americani, ovvero che rinuncia, ma non per ragioni di salute. Senza spiegare questa clamorosa contraddizione.
Peraltro lo spettacolo ha dell’incredibile perché veniamo da giorni di pressioni umilianti di tutto l’apparato Dem per far desistere Biden dopo la disastrosa performance nel dibattito con Trump e ora che lui dice di fare un passo indietro, ma non per ragioni di salute, viene acclamato come un grande statista che ha preso una decisione nobilissima.
Ma perché prendere in giro gli americani che hanno visto l’assedio a cui Biden è stato sottoposto e sanno che – dopo aver tenuto duro per giorni – ha rinunciato per quelle pressioni e non per sua scelta?
Siamo anche davanti a una formidabile manipolazione propagandisticache riesce a trasformare un siluramento o una fuga in una dimostrazione di grande leadership. E qui sorgono molte domande sul potere e l’influenza di questa macchina di propaganda progressista, amplificata da gran parte dei media.
Da anni Biden faceva dichiarazioni che inducevano al sorriso. Per esempio, si ricorda che nel 2010, davanti a un ex premier irlandese, commemorò sua madre che però era ancora viva, concludendo con un “ah, è tuo padre che è morto…”.
Non a caso Trump, nel 2019, lo soprannominò, Sleepy Joe. Ma per i suoi potenti sostenitori invece era un brillantissimo statista, sia pure con qualche innocua gaffe, come quella del 2019, quando confuse Theresa May con Margaret Thatcher (morta nel 2013).
Così, negli anni in cui ha retto la maggiore potenza planetaria, ha detto di aver parlato al G7 del 2021 con Helmut Kohl, morto nel 2017 e con Francois Mitterrand, morto nel 1996; nel 2023 ha concluso un discorso nel Connecticut dicendo “Dio salvi la regina” senza che nessuno capisse il motivo e ha affermato che “Putin sta chiaramente perdendo la guerra in Iraq”; più di una volta ha fatto conferenze stampa in cui, leggendo sul gobbo quanto gli avevano preparato i collaboratori, ha letto pure l’indicazione per lui “fine citazione, ripetere frase”, poi ha strettomani ad amici immaginari, ha fatto discorsi confusi, è inciampato ripetutamente, è apparso spaesato. Faceva perfino tenerezza.
Ma per la macchina mediatica era un grande statista che solo i cattivi trumpiani denigravano. Le gaffe venivano sminuite come inezie (inducendo così a ricordare i “raffreddori” della nomenklatura sovietica al tramonto).
Perciò Biden ha vinto trionfalmente le primarie essendo ritenuto in grado di guidare per altri quattro anni il Paese. Ma, dopo la penosa performance del dibattito con Trump, il 28 giugno, è diventato di colpo un problema per i sondaggi in discesa.
È iniziato l’assedio e quando al vertice Nato del 10-11 luglio ha presentato Zelensky come Putin e ha detto di “aver scelto Trump come vicepresidente perché convinto che fosse qualificata a fare il presidente” le pressioni sono cresciute.
Infine dopo l’attentato a Trump, il 13 luglio, con i disastrosi sondaggi, l’umiliante assedio si è fatto insopportabile. Biden non era più uno statista, ma un vecchietto ostinato e ingombrante. Per tornare di colpo un grande statista sabato scorso appena si è arreso annunciando la rinuncia.
Hanno sottoposto l’opinione pubblica a questa doccia scozzese grazie a una colossale macchina mediatica di propaganda, la stessa che, in poche ore, ha poi trasformato l’impopolare Kamala Harris – che nemmeno fra i Dem aveva consenso – in una straordinaria statista di eccezionali doti e dal grande carisma. Un mito inventato dal nulla in un giorno.
In questa disinvolta cancellazione della realtà, c’è qualcosa che ricorda l’analisi di Hannah Arendt sulla “propaganda totalitaria” che “è contraddistinta da un estremo disprezzo per i fatti in quanto tali, basata com’è sulla convinzione che questi dipendano interamente dal potere dell’uomo che può fabbricarli”.
C’è anche un dettaglio surreale. Biden ha detto nel suo discorso: “La cosa bella dell’America è che qui i re e i dittatori non governano, ma governa la gente, il potere è nelle vostre mani”. Lo ha detto nel momento stesso in cui lui, che era stato scelto dal voto popolare delle primarie, doveva rinunciare per lasciare il posto alla Harris, senza primarie, senza Convention, perfino senza un suo discorso o un programma.
Ora i grandi burattinai Dem potranno pure organizzare un’improvvisata votazione, per salvare le apparenze, ma la scelta è già stata fatta. Da loro. E dire che si chiamano “Partito Democratico”: è un’operazione di vertice, di casta, di palazzo che di democratico non ha nulla, neanche l’apparenza.
Viene perfino da pensare che le parole di Biden – che ha esaltato il potere del popolo contro re e dittatori – siano state una frecciata velenosa a chi lo ha defenestrato. O magari un lapsus freudiano (che si è arreso a malincuore è stato chiaro quando ha detto che meritava un secondo mandato).
Va infine segnalato che l’unica motivazione che Biden è riuscito a dare per la sua rinuncia è stata quella della democrazia in pericolo, ma se si ricomincia a dire che Trump è un pericolo per la democrazia si torna alla demonizzazione dell’avversario (dopo l’attentato sembrava che si volesse rinunciare a questi toni per non incendiare il clima).
Insomma è una classe dirigente allo sbando, ma con l’arroganza e la forza di una formidabile macchina di propaganda.
Antonio Socci
Da “Libero”, 26 luglio 2024