Massimo Recalcati ha detto a “Repubblica” una cosa interessante a proposito della violenza sulle donne e di ciò che occorre fare per prevenirla: “Non servirà certo introdurre nelle scuole un’ora di educazione affettiva, sessuale o sentimentale… Il rispetto per l’altro e, in particolare, per la donna non è una materia specialistica come lo sono la chimica o la letteratura”.

Poi ha fatto capire che questo rispetto non si insegna in un’ora dedicata, ma si deve respirare, deve essere nell’aria in cui viviamo, in particolare nella famiglia, dove s’impara la capacità di accoglienza e di cura dell’altro, e nella Scuola che offre cultura “come antidoto nei confronti della violenza”.

Ha ragione. La nostra cultura è un tesoro. In effetti – all’opposto di quanto si sente dire – proprio la storia dell’occidente giudaico-cristiano (e, aggiungiamo, illuminista) è una progressiva presa di coscienza della dignità intangibile di ogni persona. È una svolta formidabile nella storia umana e – come ha spiegato Benedetto Croce – nasce dal Vangelo.

Nessun’altra civiltà può testimoniare la progressione di una simile consapevolezza, peraltro alimentata anche da quei movimenti culturali moderni che – dall’illuminismo – hanno polemizzato con la Chiesa tuttavia inalberando come simboli i principi cristiani (si pensi a “liberté, egalité, fraternité”) sostenendo di poterli realizzare meglio.

Che poi, in questi secoli, innumerevoli siano i fatti che contraddiconoquesto luminoso insegnamento e questo cammino storico è verissimo, ma proprio la loro connotazione negativa testimonia la forza irresistibile della “rivelazione” che ha dato inizio a questa umanizzazione. Che ci mette anche in grado di avere uno sguardo autocritico (pure questo è un tratto peculiare dell’occidente).

La nostra stessa letteratura lo testimonia. Proprio quella grande letteratura italiana che si dovrebbe imparare a scuola – dal momento che esprime la nostra identità profonda – e che invece viene “consumata” distrattamente e sorvolata superficialmente.

Non oggi, ma ben cinquecento anni fa, uno dei nostri grandi poeti, Ludovico Ariosto, nel suo Orlando furioso, scriveva:

 

“Parmi non sol gran mal, ma che l’uom faccia

contra natura e sia di Dio ribello,

che s’induce a percuotere la faccia

di bella donna, o romperle un capello:

ma chi le dà veneno, o chi le caccia

l’alma del corpo con laccio o coltello,

ch’uomo sia quel non crederò in eterno,

ma in vista umana un spirto de l’inferno”.

 

Del resto, nel 150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni, è il caso di ricordare che il suo capolavoro, che è un pilastro dell’identità italiana e che – in teoria – dovrebbe essere uno dei testi letterari principali della nostra scuola superiore, ha come protagonista, attorno a cui ruota tutta la storia, proprio una giovane donna – Lucia – che qualche prepotente vuole separare, con la violenza, dal suo amore, impedendone il matrimonio, per appropriarsi di lei come un oggetto di cui disporre a piacimento. Lucia appare agli occhi dei malvagi come fragile e indifesa e non può nemmeno fuggire come Renzo, per costoro è “dunque facile preda”.

Lo notava alcuni mesi fa, su “Avvenire”, Riccardo Mensuali che spiegava: “Quando nasce e si sviluppa il romanzo, è tempo di patriarcato. Che era, e tale è rimasto per molto tempo, una forma di trasmissione del sapere, del sentire, del vivere e dell’educare. Eppure Manzoni riempie il suo capolavoro di uomini diversi. Il patriarcato non è una giustificazione, per la conversione possibile di Fra Cristoforo e per la grandezza d’animo del cardinal Borromeo o del sarto che accoglie Lucia, appena fuggita dal castello dell’Innominato. C’è una conversione, la più famosa, che può ancora indicare una strada. Lucia, agli occhi del suo autore, rimane per sempre nella cultura italiana e del pensiero cristiano come il personaggio più forte, quello capace di minare le fondamenta di tanta violenza e innescare un cammino di redenzione. C’è un passaggio, nel famoso racconto della conversione dell’Innominato, in cui la sola presenza di Lucia, vittima prescelta del male, suscita nell’uomo che le si contrappone un cambiamento radicale. Il suo corpo ferito e oltraggiato parla più delle parole”.

Alla fine dal romanzo vince la debolezza di Lucia sulla forza dei violentied è lei che di fatto permette ai perversi anche la possibilità del pentimento e del cambiamento radicale.

Ma non solo. C’è un altro grande pilastro della letteratura italiana (e mondiale) e della nostra stessa identità che fa un’esaltazione ancor più significativa della donna e della sua dignità. Il nome di Dante riassume tutto un grande fenomeno culturale.

Ce lo ha spiegato un’indimenticabile intellettuali laica e femminista (già collaboratrice di “Repubblica”) che è stata fra le prime a studiare da antropologa la storia delle donne e del “potere maschile”: Ida Magli.

Nel libro “Omaggio agli italiani” (Rizzoli), del 2005, scriveva: “Sono stati i poeti a intravedere la dolcezza, la bellezza, la trascendenza della fisicità, nella Donna Ideale. Sono stati loro, i poeti, che l’hanno fissata con l’Arte (…). Il massimo della consapevolezza l’uomo l’ha raggiunto in Italia, coinvolgendovi a poco a poco tutto l’Occidente, con l’Arte, e nell’ambito dell’arte, con la Musica, guardando, contemplando, sognando, amando la bellezza femminile come incarnazione concreta e simbolica di ciò che egli stesso, nel momento in cui pensa, in cui è consapevole del suo pensare, percepisce come una meta non raggiunta, che vuole raggiungere e che non è raggiungibile. Una meta che coincide con l’in-finitezza del suo desiderio e con l’in-finitezza del ‘sapere’, con l’infinitezza dell’Arte. Soprattutto con l’infinitezza di quell’assoluto che è la Musica. Per questo la Donna Ideale è essa stessa Bellezza, è essa stessa Amore, è essa stessa Poesia, è essa stessa Musica. In quale epoca possiamo cominciare a intravedere il formarsi di questa straordinaria immagine ideale? Sembra certo che in nessuna società, né primitiva né antica, né indiana o cinese o africana, sia mai stato concepito l’ideale della Donna. Questo, del resto, era impensabile per diversi motivi, tutti presenti in un modo o nell’altro ovunque tranne che nell’Occidente romano-cristiano”.
Magli spiega che, per esempio, la poligamia esclude di per sé il concetto di Donna Ideale. Aggiunge poi che la donna già nel mondo romano era giuridicamente persona e “con il cristianesimo diventa soggetto alla pari con l’uomo nel battesimo così come nel matrimonio”. Perché il battesimo “l’ha resa totalmente individuo, le ha riconosciuto un Io legato prima di tutto a se stessa, e soltanto in secondo luogo alla famiglia paterna o maritale. È per questo che l’uomo può pensare, guardare, vedere, contemplare una donna come ‘ideale’. È unica, è soltanto Lei.

Questa è la nostra cultura. Anch’essa unica al mondo. Non si tratta dunque di rinnegare le nostre radici, ma al contrario di capirle e amarle, di far fiorire e fruttificare questo albero.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 28 novembre 2023

 

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