Il “caso Bigon” non è  affatto un piccolo episodio, una “faccenda locale”, un fatterello marginale come si vuol far credere.

Dimostra che il vero “suicidio assistito” è quello dei cattolici del Pd, come peraltro molti anni fa aveva previsto Antonio Gramsci. E dimostra che il progetto politico-ideologico su cui il Pd fu fondato nel 2007 è ormai completamente fallito.

Ecco i fatti. Anna Maria Bigon, consigliera regionale del Pd in Veneto, nella votazione sulla proposta di legge relativa al suicidio assistito, non ha votato a favore come il suo gruppo, ma si è astenuta (per ragioni non confessionali, ma giuridiche e politiche) e così è stata determinante nella bocciatura.

Spalancati cielo! Nel Pd è stata subito isolata ed Elly Schlein ha sentenziato che quel voto della Bigon – un libero voto che spetta a chiunque è stato democraticamente eletto in un’istituzione pubblica – era “una ferita”.

Graziano Del Rio, leader nazionale del Pd alla cui corrente cattolico-democratica appartiene Bigon, sentendo aria di punizione, ha messo subito le mani avanti tuonando: “concordo con la posizione di Bigon nel merito e nel metodo. Se fosse sospesa mi autosospenderei anch’io dal partito”.

Anche un altro leader dell’area cattolica, Lorenzo Guerini ha difeso la consigliera. Così niente sospensione (almeno per ora), però una mezza punizione sì: il segretario provinciale del Pd veronese ha destituito Anna Maria Bigon dalla vicesegreteria. C’è chi ha commentato che il partito democratico è così democratico che non tollera dissensi. Giustamente ieri, Daniele Capezzone, su queste colonne, ha spiegato che questo è il “centralismo democratico” del vecchio Pci.

Il fatto ha di nuovo acutizzato il mal di pancia dei cattolici del Pd che, fin dall’elezione della Schlein alla segreteria, hanno cominciato a parlare di mutazione genetica del Pd, chiedendo se questo partito poteva essere ancora casa loro.

È uno psicodramma che va avanti da mesi e durerà finché non prenderanno atto della situazione, che di fatto vede chi, nel Pd, esprime un punto di vista riconducibile alla cultura cattolica, come un corpo estraneo.

Finora si è tentato di metterci una toppa, anche da parte di Del Rio e Guerini, con un’umiliante scorciatoia: invocare la “libertà di coscienza” in base alla quale, ai cattolici del Pd, dovrebbe essere riconosciuto il diritto di votare “secondo coscienza” sui temi etici (cioè in dissenso dal Pd).

Ma questa “libertà” – che dovrebbe esistere per tutti e sempre e che non dovrebbe essere “concessa” da qualcuno – è, a ben vedere, una resa, perché relega i cattolici in una ridotta, un ghetto, che permette loro di esistere, ma senza avere nessuna influenza nell’elaborazione della linea e della politica del Pd. In quella riserva indiana possono esprimere solo (nelle rare occasioni) un voto di testimonianza e purché non pesi nulla sull’esito del voto.

Anche Avvenire – giornale dei vescovi che dovrebbe rappresentare tutti i cattolici, ma invece è smaccatamente filo-Pd – vorrebbe che fosse garantita tale “riserva indiana”.

In un commento pubblicato ieri infatti chiede se “è ancora previsto, in un grande partito plurale come il Pd, esercitare la libertà di coscienza sulle questioni sensibili”. Poi, ricordando le “sofferenze” dei cattolici piddini, ha avvertito il partito che, in caso di risposta negativa, “il rischio è di consegnare al centrodestra un’altra fetta di elettorato moderato” e, per la minoranza cattolica del Pd, “di risultare ininfluente”.

In realtà proprio rifugiarsi nel “voto di coscienza” è l’accettazione della totale irrilevanza da parte dei cattolici. E rappresenta la disintegrazionedel progetto su cui nel 2007 era nato il Partito Democratico, che intendeva “sposare” la storia democristiana (quantomeno della Sinistra diccì) e la storia comunista (con annessi cespugli).

Era un progetto ideologico che veniva da lontano, dal Dossetti del dopoguerra e dalla proposta di “compromesso storico” di Berlinguer degli anni Settanta, considerata la fase del “fidanzamento” rispetto alla nascita del Pd che sarebbe stato il “matrimonio”.

In nessun Paese però si è mai vista la fusione fra partito cattolico e partito comunista che si sono combattuti per tutto il Novecento. Infatti non ha funzionato.

I vecchi Pci hanno usato i cattolici per essere legittimati e conquistare il potere. I vecchi dc hanno usato i voti postcomunisti per restarci. Con disinvolti trasformismi finalizzati al potere.

Gli eredi del Pci sono riusciti perfino a presentarsi nel mondo come ultra-mercatisti (senza mai approdare a una cultura liberaldemocratica, ma restando al vecchio settarismo). E sono riusciti a diventare talora ultra-atlantisti (a intermittenza), ma senza mai dirsi anticomunisti, sebbene il comunismo sia più forte e pericoloso che mai (la Cina è una potenza mondiale e la Russia regredisce verso l’Urss).

I cattolici hanno rinunciato totalmente alla visione del mondo e della società che aveva la tradizione politica cattolico-democratica. Come previde Antonio Gramsci, in anni lontani, “il cattolicesimo democratico fa ciò che il socialismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida”.

Resta solo il potere, la subalternità al “politicamente corretto” e all’establishment della Ue. Pare sempre più valida l’impietosa diagnosi fatta anni fa da Massimo Cacciari, che non ha mai creduto all’operazione del 2007: “Il Pd non è un partito, è un insieme di avanzi di partito il cui unico collante è il potere. Deve resistere al governo per esistere. Infatti dove non sono al governo, come in alcune regioni del Nord, vivono uno smottamento completo, hanno zero base sociale. Se salta l’alleanza con i 5stelle loro che fanno? Non hanno strategia, non hanno anima”.

Dunque? Staccare la spina e rifare la Margherita e i Ds (come nei mesi scorsi era stato ipotizzato)? No, il Pd per sé non vuole l’eutanasia. Spera nell’accanimento terapeutico: il tramonto della Schlein e il ritorno in Italia di Gentiloni. Non sembra un futuro formidabile. Né si prevede un partito arzillo.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 28 gennaio 2024

 

 

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