Ieri Papa Francesco, all’Angelus per la festa dell’Epifania, ha ricordato un evento molto importante, storico, avvenuto a Gerusalemme il 5 gennaio 1964: “Sessanta anni fa, proprio in questi giorni, il Papa San Paolo VI e il Patriarca Ecumenico Atenagora si incontrarono rompendo un muro di incomunicabilità che per secoli aveva tenuto lontani cattolici e ortodossi. Impariamo dall’abbraccio di quei due grandi della Chiesa sulla strada dell’unità dei cristiani, pregando insieme, camminando insieme, lavorando insieme”.

In effetti, da circa mille anni, la Chiesa di Roma e la Chiesa orientale sono divise, per ragioni che sarebbero superabili come dimostrò lo storico  Concilio di Firenze.

Infatti il 6 luglio 1439, nella cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore, con la bolla papale Laetentur Caeli, fu sancita la ricomposizione dello scisma e la riunificazione della Chiesa universale di comune accordo fra il romano pontefice Eugenio IV, il patriarca di Costantinopoli Giuseppe II, l’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo e il metropolita di Kiev e di Mosca Isidoro.

Purtroppo, nonostante la volontà dell’Imperatore e del Patriarca, a Costantinopoli quella riunificazione fu accolta con ostilità. Fu in qualche modo rifiutata.

Poi di fatto non vi fu l’aiuto occidentale all’impero bizantino, in cui sperava il Paleologo, e Costantinopoli fu espugnata e devastata nel 1453 dai musulmani di Maometto II, che impose la rottura anche formale dell’unione sancita a Firenze.

Se quell’unione che riguardava tutta la Chiesa orientale (anche la Russia) e non solo Costantinopoli, fosse stata mantenuta probabilmente la storia sarebbe stata molto diversa. Forse non per la città di Costantinopoli, ormai assediata dai turco-ottomani, ma per tutta la Chiesa orientale, con implicazioni storiche inimmaginabili (per esempio per la Russia). Forse sarebbe stato diverso anche ciò che accadde con lo scisma protestante che scoppiò in Germania alcuni decenni dopo.

Nella Chiesa la divisione dei cristiani è sempre stata ritenuta una tragedia dalle conseguenze nefaste per il mondo stesso oltreché per la fede (dagli scismi protestanti, per esempio, vennero la guerra dei trent’anni e il laicismo illuminista, con tutto quello che seguì).

Per questo Giovanni XXIII, con il Concilio Vaticano II, e Paolo VI hanno fortemente voluto ristabilire il dialogo fraterno con la Chiesa orientale e con tutte le confessioni cristiane. La Chiesa ritiene letteralmente uno “scandalo” la divisione dei cristiani. E lo è.

Eppure bisogna constatare che alla divisione fra le Chiese e le confessioni cristiane si aggiunge oggi, in questi mesi, una spaccatura, all’interno della stessa Chiesa Cattolica, di drammatica gravità. Anzi, la Chiesa è incrinata da crepe che hanno fatto ipotizzare addirittura la possibilità di scisma. E da più parti. Bisogna andare molto indietro nel tempo per ricordare una situazione tanto confusa ed esplosiva.

L’ultimo tema su cui si sono registrate scosse telluriche molto forti, anche fra Santa Sede ed episcopati, riguarda la cosiddetta “benedizione delle coppie gay e irregolari”. Ma è solo l’ultimo caso.

Il mondo, in questo inizio di 2024, è dilaniato dalle guerre, dalla violenza e dall’odio. E la Chiesa, invece di essere un segno di unità, è anch’essa un campo di battaglia pieno di divisioni, vendette e tifoserie. Senza carità.L’essenza stessa della Chiesa pare in discussione e talora sembra di avvertire gli scricchiolii che preludono a un crollo.

Eppure uno dei momenti più solenni della vita pubblica di Gesù è rappresentato dalla preghiera che egli fece nell’Ultima Cena, nella quale disse: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (Gv 17, 20-23).

Dunque il “segno” grazie al quale il mondo si convertirà è la comunione fra i cristiani, la loro unità, il loro essere “un cuor solo e una cosa sola” (At 4,32), il loro amore reciproco. Non le loro capacità, la loro coerenza, le loro opinioni o le loro parole, ma la loro unità.

Ci possono essere molte ragioni per discutere e anche per scontrarsi, c’è da chiedersi però se queste ragioni siano più importanti dell’unità. Naturalmente i primi a far prevalere l’unità sulle proprie opinioni personali dovrebbero essere i vertici della Chiesa. I pastori devono essere i primi ad avere carità e fare comunione. Spesso non è così.

Ma anche al tempo di santi come Francesco o Caterina o Benedetto o Ignazio c’erano tanti motivi per lamentarsi. E la situazione del mondo era grave. Quale strada scelsero?

Lo ha spiegato perfettamente un grande convertito, Charles  Péguy: “C’era la cattiveria dei tempi anche sotto i Romani. Ma Gesù non si sottrasse affatto. Non si rifugiò affatto dietro la cattiveria dei tempi. C’erano anche delle analogie estremamente impressionanti con il nostro tempo… E Gesù venne. Non perse i suoi tre anni, non li usò per lamentarsi e accusare la cattiveria dei tempi. Eppure c’era… Arrivava il mondo moderno… Ma lui tagliò corto. In un modo molto semplice. Facendo il cristianesimo… il mondo cristiano. Non incriminò, non accusò nessuno. Salvò. Non incriminò il mondo. Salvò il mondo”.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 7 gennaio 2024

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