“Erano, sono e resteranno sempre comunisti!”, questo slogan era spesso ripetuto da Berlusconi contro la sinistra. Nei comizi i toni com’è noto sono molto accesi. Tuttavia è un giudizio che trova conferma nei fatti del trentennio 1994-2024.

Casomai con una postilla: restano comunisti, ma pretendendo di essere anche “tutto il resto all’occorrenza”. Come dimostrano i continui cortocircuiti del Pd, gli ultimi dei quali sono l’adesione della Schlein al referendum contro il Jobs Act (che è stato per anni la bandiera liberista del Pd: fu la legge qualificante del governo Renzi nel 2016) e la candidatura di ultrapacifisti nelle sue liste (il Pd di Letta è stato il gendarme ideologico dell’ortodossia atlantista sulla guerra in Ucraina).

Il prepotente riemergere del rosso antico nel Pd è evidente con la scelta della segreteria di riprodurre il volto di Enrico Berlinguer nella tessera del 2024. Questa decisione è stata ridotta dai media a dettaglio sentimentale, invece è un gesto simbolico con cui il Pd riconosce pubblicamente di essere la prosecuzione storica del Pci.

Finora lo avevano sempre negato. Walter Veltroni che fu fondatore e primo segretario del Pd, nel suo discorso ufficiale – il 27 ottobre 2007 – affermò che si trattava di un “nuovo partito” che significava “cambiamento e non continuità” e non nominò mai il Pci, né fece alcun riferimento al comunismo (suo passato recente).

Lo stesso nome “Partito Democratico” ammiccava al partito americano dei Kennedy, considerati da Veltroni la stella polare.

Ora il Pd si è tolto una maschera e torna nel solco di una storia che non è affatto cominciata a Washington, ma a Mosca, la Mosca comunista di Lenin e Stalin, a cui guardarono nel 1921 i fondatori del Pci che volevano “fare come in Russia”.

Questa scelta rappresenta anche un’umiliazione inflitta alla componente cattolico-democristiana del Pd. Del resto fin dall’inizio ci fu chi sostenne che i cattolici lì servivano solo a legittimare i (post) comunisti e che dunque sarebbero stati trattati da foglie di fico, mosche cocchiere e portatori d’acqua.

Oggi il suicidio ideale della più grande tradizione politica dell’Italia democratica – quella della Dc – vede il suo epilogo con la malinconica protesta di Pierluigi Castagnetti.

Il quale, come ultimo segretario del Partito popolare italiano, è irato e costernato di fronte alla scelta di Elly Schlein: “Se Elly Schlein vuole un partito che sia una versione aggiornata del Pci tanti saluti. Noi non ci siamo. È una scelta ma si abbia il coraggio di dirlo”.

Nessuno però, nella segreteria del Pd, lo ha preso in considerazione. Castagnetti continua a ripetere la vecchia storia (“Nel 2007 il Pd è nato per rappresentare nel panorama politico italiano una novità. Era il superamento di due culture, non il prevalere di un’altra sull’altra”) e si aspetta di vedere – nelle tessere Pd del 2025 – “altri volti… altrimenti Pd è progetto morto”.

Si riferisce ad Alcide De Gasperi. In effetti il 2024, oltre ad essere il 40° anniversario della morte di Berlinguer, è il 70° della morte di Gasperi, ma l’occasione è stata perduta. Del resto usare i volti di questi due politici per rappresentare lo stesso partito, sarebbe una “bestemmia” ideale e politica.

Infatti De Gasperi è il simbolo della Democrazia Cristiana che ha storicamente sconfitto il Partito comunista, mentre Berlinguer – pupillo di Togliatti – rappresenta appunto il Partito Comunista Italiano che, per decenni, ha combattuto la DC come il suo avversario storico.

Erano i simboli della divisione Est/Ovest. Presentarli oggi come compagni di partito non sarebbe rispettoso della storia e dell’identità di questi uomini. Oltretutto, da presidente del Consiglio, De Gasperi ebbe proprio con il giovane Berlinguer uno scontro personale durissimo nel 1950, quando Berlinguer era (per volere di Togliatti) capo della Fgci.

Erano gli anni della guerra fredda. Il Pci, allineato all’Urss di Stalin, accusava Usa e Nato di essere bellicisti. Nella sua biografia del leader comunista, Chiara Valentini scrive: “Berlinguer aveva anche affermato che, in caso di guerra, i giovani italiani non avrebbero mai combattuto contro l’Urss, provocando un duro discorso di risposta di De Gasperi in persona”. Al quale Berlinguer e i suoi replicarono: “voi ci accusate di tradire la patria, ma in realtà siete voi che l’avete consegnata nelle mani degli americani”.

Fra l’altro questo scontro suscitò in Togliatti e Berlinguer l’idea di “tentare un approccio singolare, quello con i giovani fascisti”. Infatti “Berlinguer rivolge una specie di appello ufficiale alla base fascista al Teatro Splendore di Roma” sulla base dell’antiatlantismo e dell’anticapitalismo. Poi tutto si arenò.

Oggi è in corso una sorta di beatificazione di Berlinguer (mentre De Gasperi, che salvò l’Italia dal comunismo e la ricostruì dalle rovine, è stato dimenticato). In recenti interviste tv si è sentito anche teorizzare che Berlinguer da giovane si iscrisse al Pci come “comunista italiano” e non c’entrava nulla con i regimi comunisti dell’Est. Viene quasi rappresentato come nemico di quei regimi.

Niente di più assurdo. Berlinguer, pupillo e allievo di Togliatti, ebbe anche “l’emozione di essere ricevuto da Stalin” e, ricorda la Valentini, nella sua relazione al primo Congresso della Fgci del 1950 definì Stalin “il campione della liberazione del genere umano”.

Quando morì, “Berlinguer scrive personalmente il testo del telegramma che la Fgci manda al Comitato Centrale del Pcus”. Eccolo: “A nome tutta gioventù italiana, ispirandoci insegnamento immortale Grande Scomparso, assumiamo solenne impegno di dare tutte le nostre energie per tenere sempre alta la bandiera di Stalin”.

Oggi tutto è dimenticato, rimosso. Dalla politica e anche dalla cultura di sinistra che mai ha fatto i conti con il suo passato e con ciò che è stato il comunismo. A 35 anni dal crollo dei regimi dell’Est, quanti film, libri, convegni, articoli critici (e autocritici) con quell’orrore sono stati partoriti dalla cultura progressista?

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 13 maggio 2024

 

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