Molto si è scritto in questi giorni di Roberto Formigoni, ma si è dimenticato di ricordare la storia da cui è emerso. 

Comunione e Liberazione irrompe sulla scena attorno al 1969, quando la Chiesa stava precipitando in una crisi spaventosa e l’Italia era letteralmentetravolta dall’estremismo ideologico marxista.

Soprattutto nelle scuole, nelle università, nelle fabbriche e nei giornali il pensiero unico veniva imposto con soffocante violenza verbale e anche fisica. Di lì a poco esploderà perfino il terrorismo.

E’ in questo contesto che fiorisce – attorno a don Luigi Giussani– una travolgente esperienza di cattolicesimo vissuto che affascina migliaia di giovani. 

Recentemente, in un volume postumo del card. Giacomo Biffi, è stata pubblicata una sua lettera del 15 dicembre 1977 a una suora carmelitana di clausura dove il monsignore spiegava cosa stava accadendo: 

(quelli di CL) sono ragazzi convinti di avere il diritto di fare un’esperienza di vita associata alla luce della loro fede, nel pieno rispetto dei diritti altrui, che non hanno mai tentato di violare una sola volta. In forza di questo diritto, essi costituiscono all’interno dell’università l’unico gruppo che – con la sua sola esistenza – contesta la cultura egemone che ritiene di essere l’unica. Perciò sono insopportabili, perciò sono picchiati a morte. All’infuori di quello di esistere, non hanno mai compiuto nessuna provocazione; ma è la loro esistenza a essere provocatoria. In una società ormai arresa e impaziente di rendere omaggio al nuovo ‘principe’, sono gli unici” aggiungeva Biffi “a ritenere che la salvezza dell’uomo arrivi da un’altra parte e la sua promozione vada cercata in un’altra direzione. Don Giussani – che non si è mai sognato di occuparsi di politica – da molte settimane vive randagio, dormendo sempre in posti diversi, perché la polizia l’ha avvisato che esiste un progetto preciso di fargli la pelle. Quando gliela faranno, si troverà modo di dimostrare che è stata colpa sua. Del resto, non è CL in gioco, è il fatto cristiano.

Era così vero che – una volta eletto papa Giovanni Paolo II – proprio CL costituì, per il nuovo pontefice, il punto di forza per una rifioritura straordinaria della Chiesa Cattolica.

I ciellini – prima maltrattati dentro il mondo clericale postconciliare che si arrendeva al progressismo – ora avevano piena cittadinanza nella Chiesa e pure la DC attinse a queste inattese e fresche energieFormigoni fu l’emblema di quella rinascitache poi con Forza Italia diventò esperienza di governoin Lombardia.

La cosa che oggi più colpisce è la totale sparizione di CL. Sia il crollo numerico e di presenzafra i giovani, sia la sparizionedal dibattito pubblico dove l’originalità della sua posizione culturale e sociale destava grande interesse anche nel mondo laico (cosa rara per dei cattolici). 

E’ accaduto tutto con la morte di don Giussani nel 2005 e con l’arrivo di don Julian CarronCL ha perso il suo carisma e la sua originalità ed è appassita.

Un fenomeno che fa parte della desertificazione del mondo cattolicocompiutasi in questi anni del pontificato bergogliano, nei quali gli unici segni di vita – le Sentinelle in piedio i Family day– sono stati mal sopportati dal Vaticano.

Papa Bergoglio infatti fin dal 2013 ha voluto la cancellazione della presenza sociale e politica dei cattolici che aveva come simbolo la Cei del card. Ruini

Nel quinquennio del PDil Vaticano non voleva disturbare il manovratore, perché il PD, a cominciare dal governo Letta, aveva deciso di seguire papa Bergoglio nella sua unica vera battaglia politica: le frontiere aperte ai migranti. Così sono arrivati in 600 mila e il Pd si è suicidato.

Una volta andata al governo la Lega di Matteo Salvini, nel2018, Bergoglio ha improvvisamente rovesciato le sue posizionipretendendo che i cattolici tornino in politica con due bandiere: i migrantie l’entusiasmo acritico per l’Unione europea. Paradossalmente chi è più in sintonia col programma del papa argentino è la radicale Emma Bonino.

Invece di occuparsi della rinascita della presenza cattolica nella società e fra i giovani, dove non ce n’è più traccia, papa Bergoglio e la Cei si lanciano in politica dove di cattolici ce ne sono tantissimi.

Basta considerare i vertici dei partiti e delle istituzioni. Sono cattolici sia il presidente della Repubblica Mattarellache la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati

Sono cattolici sia il presidente del Consiglio Conteche i suoi due vice, Matteo Salvini  eLuigi Di Maio. Sono cattolici gli altri due leader del centrodestra, Berlusconi  eMeloni, come è cattolico Matteo Renzi  (e altri leader del Pd).

Forse non ci sono mai stati così tanti cattolici ai vertici della politica come oggi. Dunque tutta la mobilitazione del Vaticano della Cei ha una sola spiegazione: combattere Salvini.

E’ poi curioso che in questo dibattito su cattolici e politica (anche sui giornali laici) non venga mai considerata la vicenda storica della DC a cui l’Italia deve la rinascita oltreché la libertà.

Nel mese scorso molte celebrazioni, sui media, ha avuto don Luigi Sturzo, per i cento anni dalla fondazione del Partito popolare. Ed è curioso che esaltino Sturzo – che era un ultra liberista – anche cattolici che “in teoria” si dicono progressisti (d’altronde, nella pratica, è la sinistra che ha assecondato in questi anni la peggiore globalizzazione mercatista).

Si dimentica invece la Dc e il connotato keynesiano della politica DC, quella che dalla Costituente di La Pira a Fanfani, Moro ed Enrico Mattei, ha messo al centro la “piena occupazione” e – anche attraverso l’intervento dello Stato (si pensi all’Eni) – portò l’Italia, un tempo sottosviluppata, al quarto posto fra le potenze industriali

Paradossalmente oggi questa impostazione di “sinistra keynesiana”, totalmente avversata dalla UE e dal Trattato di Maastricht, è reperibile nella Lega di Salvini(che si avvicina peraltro alle percentuali di consenso della Dc). 

Così tutto appare rovesciato. Le coordinate destra/sinistra non dicono più nulla. Tutto è cambiato.

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Antonio Socci

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Da “Libero”, 24 febbraio 2019

Tutti ricordano le immagini michelangiolesche della Cappella Sistina e tutti sanno che Dio Padre, nelle scene della creazione, è rappresentato come un austero e potente vegliardo con barba e capelli bianchi  (VEDI IMMAGINE).

E’ la tipica iconografia della prima Persona della SS. Trinità e la ritroviamo in tante altre raffigurazioni. Ma non è sempre stato così, anzi: nei primi tredici secoli dell’era cristiana Dio Padre non poteva neanche essere rappresentato.

La Chiesa infatti si era trovata davanti al divieto veterotestamentario di raffigurare Dio: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo”  (Esodo 20,4). 

Tale comandamento divino era stato dato a Israele contro l’idolatria delle altre religioni. Il Dio di Israele, l’unico vero Dio, era totalmente trascendente.

Tuttavia un tale divieto – acquisito e rispettato dai cristiani – non impedì loro di ricorrere alle immagini per illustrare le vicende evangeliche che sono terrene e non impedì loro di venerare quelle immagini sacre.

Se ne trova spiegata la ragione teologica nella Summadi san Tommaso d’Aquino 

“Del Dio vero, essendo esso incorporeo, non si poteva fare alcuna immagine materiale, poiché come dice il Damasceno ‘è cosa sommamente stolta ed empia raffigurare ciò che è divino’. Ma poiché nel nuovo Testamento Dio si è incarnato, può essere adorato nella sua immagine corporea ”.

Il cristianesimo si fonda infatti sull’annuncio di Dio fatto uomo: la sua storia salvifica è un insieme di avvenimenti che si narrano nei Vangeli e che si possono rappresentare, per questo nella Chiesa le immagini acquisteranno una funzione fondamentale e la civiltà cristiana, nel corso dei secoli, sarà una vera e propria esaltazione delle immagini.

Restava fermo tuttavia il veto sulla rappresentazione di Dio Padre, il quale dai cristiani fu raffigurato, per tredici secoli, con il volto e l’aspetto di Cristo, perché, nel Vangelo, Gesù stesso proclama la sua perfetta comunione con il Padre: “Chi vede me vede il Padre” (Gv. 14,9), “Io e il Padre siamo una cosa sola”  (Gv. 10,30). Infatti san Paolo commenta: “Egli è l‘immagine di Dio invisibile”  (Colossesi 1, 15; 2 Corinzi, 4, 4). 

“E’ su queste autorità” scrive Alessandra Gianni “che i teologi e i padri della Chiesa consentiranno la rappresentazioni di Dio cristomorfo”. 

Un esempio meraviglioso è costituito dai mosaici di Monreale (XII secolo) dove Dio Padre viene raffigurato, nei diversi giorni della creazione, con il volto di Gesù (VEDI IMMAGINE).

Per secoli, nel mondo bizantino e in quello latino, Dio Padre è stato rappresentato attraverso Gesù oppure ricorrendo al simbolo della mano che si affaccia dal cielo, la dextera Patris, segno di Dio che interviene nella storia umana, che dunque diventa sacra. 

Ma allora quando e perché Dio Padre ha assunto l’aspetto di un vegliardo con barba e capelli bianchi? E com’è stato possibile, per l’arte sacra, superare totalmente un divieto che affonda addirittura in un comandamento biblico e che era stato osservato fedelmente per secoli nella Chiesa?

Alessandra Gianniaffronta precisamente queste domande nel saggio “L’inizio dell’iconografia di Dio Padre”, pubblicato su “Iconographica. Studies in the History of Images” (XVII/2018).

Seguendo questa indagine si scopre che le prime rappresentazioni di Dio Padre come vegliardo si trovano in alcune miniature bolognesi del quarto decennio del XIV secolo.

Progressivamente la nuova iconografia comincerà ad affacciarsi anche nella pittura destinata al popolo, si affermerà definitivamente nel quarto decennio del XV secolo e “sostanzialmente non si troverà più il cristomorfismo dal quinto decennio del Quattrocento in avanti”.

Qual è la ragione di una svolta così importante nell’iconografia cristiana, considerata la sua delicata implicazione biblica? 

Per quanto possa apparire sorprendente non c’è nessun pronunciamento ufficiale della Chiesa che autorizzi direttamente una tale svolta iconografica e nei tanti studi degli storici dell’arte che l’hanno analizzata non è mai stata fornita una spiegazione.

Il merito del saggio di Alessandra Gianni è quello di proporre delle ipotesi che finalmente potrebbero storicamente spiegare perché la nuova iconografia si è pian piano affermata e alla fine si è imposta.

L’autrice ne ricerca le ragioni nella storia della Chiesa di quegli anni, non essendo neanche immaginabile che una tale “innovazione” possa essere dovuta all’estro di qualche miniatore o qualche pittore.

La committenza ecclesiastica infatti era ben consapevole delle implicazioni teologiche  delle rappresentazioni sacre e della loro delicata funzione catechetica e liturgica (basti ricordare la vicenda dell’iconoclastia).

L’autrice trova che proprio nella storia della Chiesa di quegli anni accaddero eventi che, in effetti, potrebbero spiegare perché, nel giro di pochi lustri, si ha una tale svolta epocale nella rappresentabilità di Dio Padre.

“L’inizio sperimentale della rappresentazione di Dio Padre nelle miniature bolognesi degli anni Trenta” osserva “può essere collegato all’ istituzione della festività della SS. Trinità voluta nel 1334da papa Giovanni XXII, ma ancor più alla disputa sulla visione beatifica, cioè sul destino delle anime elette dopo la morte, che dal 1331 al 1336 coinvolse tutta la cristianità. La controversia fu scatenata da alcuni sermoni pronunciati da papa Giovanni XXII nella cattedrale di Notre-Dame-des-Doms per la festività di Ognissanti nei quali egli sosteneva che le anime dei beati in cielo non vedevano e non avrebbero visto Dio faccia a faccia prima del Giudizio universale e che avrebbero goduto soltanto della contemplazione dell’umanità di Cristo secondo l’autorità delle scritture (Apocalisse 6, 9). Questa ipotesi veniva a contrapporsi alla riflessione teologica precedente basata sui testi biblici che aveva stabilito invece che esse vedono subito il volto di Dio così come egli è. Papa Giovanni fu costretto a ritrattare questo pronunciamento ritenuto eretico e il successivo papa Benedetto XII il 29 gennaio 1336 emise ad Avignone la costituzione Benedictus Deus con la quale stabilivache i santi ‘videro e vedono l’essenza divina con visione intuitiva e facciale’”. 

E’ significativo che “esattamentenegli stessi anni in cui si svolgeva questo dibattito, che vide contrapporsi papi, re, imperatore, teologi nella curia pontificia e nelle università e predicatori dai pulpiti, si abbiano in codici di diritto canonico le prime testimonianze del cambiamento nel modo di raffigurare Dio Padre”. 

L’affermazione definitiva della nuova iconografia di Dio Padre, poi, è concomitante, nel secolo successivo, con un altro straordinario evento ecclesiale: il Concilio di Ferrara Firenze (1438-39) che intendeva addirittura risolvere lo scisma con la chiesa greca. 

Com’è noto uno dei nodi era rappresentato dalla disputa relativa al “Filioque”  del Credo, che concerneva la definizione teologica dei rapporti fra le Persone della Santissima Trinità e i rispettivi “ruoli”.

Vi fu un eccezionale sforzo teologico documentato dalle bolle di unione delle diverse chiese emanate da Eugenio IV, dove fra l’altro si leggono passi in cui si sottolineache “il Padre non è il Figlio o lo Spirito santo, che il Figlio non è il Padre o lo Spirito santo, che lo Spirito santo non è il Padre o il Figlio; ma che il Padre è soltanto Padre, il Figlio è soltanto Figlio, lo Spirito santo è soltanto Spirito santo”. 

“E’ lecito pensare che la ridefinizione puntuale dei rapporti fra le Persone della Trinità, esito delle discussioni del concilio” osserva Alessandra Gianni “abbia spinto le committenze negli anni successivi a differenziare l’iconografia del Padre e del Figlio per rendere più comprensibile la diversità nell’unità delle Persone”.  

E’ probabilmente da questi eventi ecclesiali che viene l’immagine artistica di Dio Padre come oggi la conosciamo.

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Antonio Socci

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Da “Libero”, 18 febbraio 2019

La vicenda dei pastori sardi è solo l’ultimo episodio di una crisi colossale  in cui siamo precipitati negli ultimi 25 anni  senza renderci conto di chi, cosa, come e perché ci abbia scaraventato nella voragine. 

In Francia, con i “gilet gialli”, la rivolta è ancora più forte e in Gran Bretagna si è espressa con la Brexit. Ma tutto è destinato ad aggravarsi. Il connotato del tempo che viviamo è l’insicurezza. Un’ansia collettiva per cui nessuno più si sente protetto. La condizione economica e sociale di tutti è destabilizzata e incerta

Circa 25 anni fa ci avevano prospettato la terra promessa con la Ue, l’euro e la globalizzazione. Siamo stati fuorviati da una narrazione fasulla delle élite e dei media secondo cui stavamo entrando “nel futuro”.

Altro che futuro: è una paurosa regressione all’Ottocento, un mondo senza protezione sociale. Infatti non si tratta solo di ricordare i soliti disastrosi indicatori della crisi di questi decenni: il crollo del pil e della produzione industriale o l’esplosione della povertà e della disoccupazione giovanile. L’insicurezza ha investito proprio tutti, anche le categorie più forti

TUTTI NELL’INSICUREZZA

Ieri Giulio Sapelli dava dei flash di questa situazione: disgregazione delle classi medie a reddito fisso impaurite dalla riforma dei regimi pensionistici… sottomissione di larghi strati di commis d’état a regimi privatistici che li sottopongono alla legge del mercato e alla ricerca continua di un posto di lavoro… svalutazione del principio di status per gran parte degli insegnanti sottomessi a regimi di reddito insufficienti per riprodurre la conoscenza didattica e culturale generale”.

Ed ancora:

Nell’industria manifatturiera la crisi sottopone manager di ogni basso e medio livello all’incubo della disoccupazione… in età matura”. 

E poi lavoratori di ogni categoria “sottoposti a insicurezza di lavoro”, la “paura crescente” che “serpeggia tra la borghesia manifatturiera alveolare; le piccole e artigianali imprese” con “il rischio continuo di fallimento…  La classe operaia paralizzata dalla paura della disoccupazione e dal regime neo-schiavistico a cui è sottomessa nella maggioranza delle imprese con contratti intermittenti e a tempo breve”.

Un’intera generazione di giovani che sprofonda nella sotto occupazione, precaria e mal pagata e resta esclusa dalla vita sociale, dalla possibilità di fare un progetto, una famiglia, dei figli.

L’instabilità e il rischio riguardano perfino i nostri conti correnti e le nostre banche, un tempo, fortini inespugnabili. E nemmeno i pensionati  possono più sentirsi al sicuro. 

E’ diventato un lusso perfino far studiare i propri figli e rischia di diventare proibitivo addirittura curarsi. Da almeno 25 anni l’ascensore sociale è bloccato.

NOSTALGIA

Uno scenario inimmaginabile negli anni della cosiddetta Prima Repubblica, quando – al riparo di politiche keynesiane – l’Europa occidentale aveva potuto conseguire, in quarant’anni, livelli di benessere e di sicurezza sociale eccezionale.

E’ stato il quarantennio dell’unica vera grande rivoluzione sociale pacifica che il nostro Paese abbia mai conosciuto: un formidabile ascensore sociale ha permesso davvero a tutti – bastava studiare o darsi da fare – di migliorare le proprie condizioni di vita. 

I figli delle famiglie popolari hanno potuto conseguire veri traguardi di ascesa sociale e gran parte delle famiglie hanno accantonato risparmi e si sono fatte la casa di proprietà.

INIZIA L’INCUBO

Poi, dopo il crollo del Muro di Berlino, è stato decretato l’avvio di un globalizzazione selvaggiae di una Unione Europea che – con i Trattati di Maastricht – ha rottamato la piena occupazione, il welfare state e il benessere diffuso, sull’altare del “dio Mercato”.

Ai governi nazionali sono stati progressivamente sottratti poteri. Gli Stati sono stati spolpati dalle privatizzazione e sottoposti alla dittatura del Mercatismo con una perdita radicale di sovranità da parte dei popoli.  

All’obiettivo della piena occupazione è stato sostituito quello del controllo dell’inflazione e dell’ austerità dei conti pubblici (con il taglio della spesa sociale). 

E’ stato un colossale esperimento politico condotto da élite che avevano chiarissimo ciò che sarebbe accaduto. Lo si trova spiegato nero su bianco. 

Penso, ad esempio, a quanto scriveva, sul “Corriere della sera” del 26 agosto 2003, Tommaso Padoa-Schioppa, un esponente dell’élite che ha lavorato ad altissimi livelli a Bankitalia, alla Banca Centrale Europea e alla Commissione Europea.

Questo “convinto europeista”  è stato  membro del

“Comitato Delors  che delineò la strada verso la moneta unica europea, infine è stato Ministro dell’economia e delle finanze nel governo Prodi e poi dirigente del Fondo Monetario Internazionale.  

LA DUREZZA DEL VIVERE

Dunque in un memorabile articolo sul “Corriere” Padoa-Schioppa spiegava che, in tutta Europa, si doveva andare verso quelle “riforme strutturali” che consistevano nel “lasciar funzionare le leggi del mercato, limitando l’intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione”

A cosa avrebbe portato tutto questo? Padoa Schioppa lo spiegava chiaramente: 

“Nell’Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev’essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità”.

Ecco il punto d’arrivo del colossale esperimento sociale mercatista. Adesso i popoli europei (e soprattutto il popolo italiano) provano nuovamente la “durezza del vivere”, la precarietà, l’insicurezza e il rischio della povertà che conobbero fino all’Ottocento.

Oggi l’esperimento è compiuto. E le moltitudini impoverite si sollevano, cosicché in Gran Bretagna decidono con la Brexit di riprendere in mano i propri destini, nelle piazze parigine si ribellano rumorosamente con i gilet gialli, fino all’Italia che si dibatte in una crisi pesantissima e il 4 marzo del 2018 ha dato il primo scossone.

Questo impoverimento generalizzato, questo senso di insicurezza e vulnerabilità che ormai attanaglia tutti i gruppi sociali e tutte le generazioni, rappresenta il fallimento delle élite

Stiamo vivendo una spaventosa regressione all’Ottocento  che rischia di dare il colpo di grazia alla stessa democrazia, già mal ridotta.

Del resto l’esperimento dei demiurghi dell’Unione Europea è stato condotto proprio per arrivare a una sorta di super stato che allontanasse i popoli dai centri decisionali.

Come dichiarò Jean Monnet, che è uno degli architetti delle istituzioni europee, nel 1952:“Le nazioni europee dovrebbero essere guidate verso un superstato senza che le loro popolazioni si accorgano di quanto sta accadendo. Tale obiettivo potrà essere raggiunto attraverso passi successivi ognuno dei quali nascosto sotto una veste e una finalità meramente economica”.

Antonio Socci

Da “Libero”, 17 febbraio 2019

Andiamo sempre peggio, si sente dire al Bar del pensiero luogocomunista. Si ripete: i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, e poi violenze, inquinamento, catastrofi, esaurimento delle risorse, fame e malattie, sottosviluppo, inevitabili migrazioni di massa.

“Questa è l’immagine che quasi tutti gli occidentali vedono nei media e si imprimono nella mente. Io la chiamo visione iperdrammatica del mondo, una concezione stressante e ingannevole”. Così scrive Hans Rosling  in “Factfulness” (Rizzoli).

Questo libro, il cui autore è membro dell’Accademia di Svezia e fondatore della sezione svedese di Medici senza frontiere,
elenca una serie impressionante di dati che dimostrano l’esatto contrario. 

Ovvero che il mondo va sempre meglio, l’umanità ha compiuto progressi spettacolari  e ha conseguito un benessere inimmaginabile.

Quindi i media ci danno una rappresentazione totalmente ribaltata  della situazione? La risposta è: sì. Ma c’è un’altra rappresentazione ribaltata  della realtà (e, in questo caso è più difficile trovare i dati veri che ci fanno scoprire la verità): si tratta del tema Europa/Italia

Quando si parla dell’Unione Europea i media vanno in sollucchero. Fin da quando è stata varata – circa 25 anni fa – si predisse che questo esperimento politico (con la moneta unica) ci avrebbe portato nella terra promessa dove scorre latte e miele, ci avrebbe fatto ricchi e ci avrebbe protetto da tutte le intemperie finanziarie e politiche. 

E’ accaduto l’esatto contrario (vedremo i dati) e va sempre peggio, ma la rappresentazione mediatica continua a raccontare la favola della propaganda iniziale. 

C’è un nesso fra i due fenomeni, quello globale (positivo) e quello euro-italiano (negativo)? Certo che c’è. Ma prima vediamo un po’ di numeri.

Sono dati ufficiali della grandi istituzioni internazionali. Ecco qualche esempio. 

BUONE NOTIZIE DAL MONDO

Nel 1800l’85% della popolazione mondiale viveva nella condizione di povertà estrema. Venti anni fa era il 29% e oggi il 9%. Un successo strepitoso (con un balzo eccezionale negli ultimi 20 anni), eppure nessuno se ne rende conto.

Scrive Rosling: “Nel 1800, quando gli svedesi morivano di fame e i bambini britannici lavoravano nelle miniere di carbone, l’aspettativa di vita era di circa 30 anni in tutto il mondo. Il dato era sempre stato questo. Circa metà dei bambini moriva durante l’infanzia. Quasi tutti gli altri perdevano la vita tra i 50 e i 70 anni. Perciò la media si aggirava intorno ai 30”. Oggi nel mondo l’aspettativa di vita media è di 72 anni (da noi sopra gli 80).

Consideriamo poi “tutte le vittime di inondazioni, terremoti, tempeste, siccità, incendi e temperature estreme, nonché i decessi durante gli sfollamenti e le pandemie che seguono questi episodi”. 

Oggi, spiega Rosling, il numero annuale di decessi dovuti a tali calamità è solo il 25% di quello di un secolo fa, ma siccome la popolazione è aumentata di 5 miliardi da allora, il crollo dei decessi è ancora più clamoroso: abbiamo solo il 6% dei decessi di cent’anni
fa
. Grazie agli enormi progressi che ci permettono di difenderci.

Un dato che esemplifica il miglioramento della qualità della vita: oggi l’80% delle persone ha un qualche accesso all’elettricità

Inoltre si ripete che l’Africa è una bomba a orologeria, che, con il boom demografico, la fame, le malattie e il sottosviluppo porteranno in Europa milioni di migranti. 

Si ignora invece che in questi anni, in cui i paesi europei stentano a far crescere il pil dell’1%, in Africa la crescita è ben superiore e paesi come Ghana, Nigeria, Kenya o Etiopia (come il Bangladesh in Asia) sono cresciuti sopra al 5 %

E ci sono paesi come Tunisia, Algeria, Marocco, Libia ed Egitto che “hanno aspettative di vita superiori alla media mondiale di 72 anni. In altre parole, si trovano dove la Svezia era nel 1970”.

Rosling elenca pure una serie di cose orrende che sono sparite o stanno sparendo dal mondo: dalla schiavitù legale ai paesi con casi di vaiolo, ai morti in incidenti aerei. 

In fortissima diminuzione  la percentuale di persone denutrite (passate dal 28% del 1970 all’11% del 2015), le armi nucleari (da 64 mila del 1986 a 9 mila del 2017), le sostanze nocive per l’ozono (da 1663 del 1970 a 22 del 2016, in migliaia di tonnellate), il lavoro minorile, l’inquinamento  derivante da piombo nella benzina e incidenti con perdite di petrolio.

Invece cresce nel mondo la resa cerearicola per ettaro (da 1.400 KG per ettaro del 1961 a 4 mila del 2014), la superficie terrestre protetta da parchi, l’alfabetizzazione (dal 10% del 1800 all’86% del 2016) per non parlare della ricerca scientifica, della democrazia (e del voto femminile).

Si potrebbero elencare molti altri indici, riportati da Rosling. Ovviamente sono indici di benessere prevalentemente economico, che non escludono l’esistenza di altri problemi umani o fatti molto negativi.

PESSIME NOTIZIE EURO-ITALIANE

Veniamo invece al caso euroitaliano: perché da noi – al contrario del resto del mondo – le cose sono andate indietro 

Bastino due dati: nel 1999 il prodotto interno lordo dell’eurozona era il 22% di quello mondiale. Nel 2017 è ormai al 16%. Una caduta micidiale.

Nel 2000 l’economia USA superava del 13% quella dell’eurozona, nel 2016 questa percentuale era raddoppiata: al 26%.

Anche se i media continuano a raccontare la favola dell’UE felice, la gente comune  si è accorta dell’inganno, paga sulla propria pelle il peggioramento della qualità della vita e comincia a protestare, nelle urne (Italia e Gran Bretagna) o nelle piazze (Francia).

C’è un nesso fra i due fenomeni, quello globale (positivo) e quello (negativo) relativo a Italia/Europa? Sì. Il nesso si chiama globalizzazione. Fino alla caduta del Muro di Berlino si è avuto un progresso globale ordinato e regolato, guidato e trainato dagli Stati Uniti e dall’Europa occidentale.

Dagli anni Novanta si è imposta una globalizzazione selvaggia, con un Mercato globale senza regole e, per esempio, l’ingresso di colpo sulla scena di un gigante come la Cina che, di fatto, fa concorrenza sleale a tutti.

La follia europea è stata quella di legarsi le mani con i Trattati di Maastricht (che hanno al centro il mercato e l’inflazione, anziché il lavoro e la crescita economica) e con una moneta unica che, oltre a impedire le preziose politiche monetarie nazionali, ha regalato alla Germania un marco super-svalutato e a noi una lira sopravvalutata.

Così i tedeschi hanno vampirizzato le altre economie europee, specie quella italiana. Infatti in 18 anni di euro la manifattura italiana è crollata del 16%, quella tedesca è cresciuta del 30%.

Ecco perché nel 1999 – all’ingresso nell’euro – il reddito pro-capite degli italiani era il 96% di quello tedesco, mentre nel 2015 dopo sedici anni di euro il reddito degli italiani è il 76% di quello dei tedeschi. 

Il nostro reddito pro capite è addirittura diminuito  da 34.802 dollari del 1999 a 34.752 del 2017. Negli anni ottanta, un italiano risparmiava in media 1/4 del suo reddito: oggi quasi zero.

L’Italia che, fra 1960 e 1979, vedeva crescere il Pil del 4,8% medio annuo (ed era ancora al 2% fra 1980 e 1999), dal 2000 al 2018 è ferma : la crescita media annua allo 0,2% significa che siamo in coma.

E questo si paga salatamente nella qualità della vita. Significa più disoccupazione e povertà, meno investimenti in infrastrutture, nell’educazione e nella sanitàSignifica blocco del cosiddetto “ascensore sociale”

Significa avere giovani senza un futuro, senza possibilità di fare un progetto di vita e significa anche gravissima denatalità. E’ la via del declino irreversibile.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 10 febbraio 2019

“Metrò, i furti e l’impunità”. Questo era il titolo di una pagina che il “Corriere della sera”, martedì scorso, ha dedicato a un allarmante fenomeno. L’occhiello recitava: “Le borseggiatrici seriali nelle città italiane. Sono gruppi di decine di ragazze che evitano il carcere grazie alle gravidanze”. 

Il primo caso illustrato era quello di una “borseggiatrice bosniaca”, che già “in decine di processi ha accumulato pene per 14 anni, 11 mesi e 17 giorni”: ogni volta che viene fermata da un poliziotto o un carabiniere mostra un certificato di gravidanza così da ottenere sempre “decreti di differimento della pena”.

Accade questo per l’articolo 146 del Codice penale che sospende la pena nel caso in cui si tratti di una donna incinta o madre di un bambino che ha meno di un anno di età. E’ una norma sacrosanta.

“Ma – spiega Gianni Santucci in quella pagina del ‘Corriere’ – esistono decine di ragazze rom (con i loro sfruttatori) che soprattutto tra Milano, Roma, Venezia e Firenze applicano una distorsione sistematica e drammatica di quel principio di umanità della giustizia”.

Fin qui è la descrizione di una situazione triste, preoccupante e più volte raccontata sui media. Peraltro ci sono anche altri tipi di borseggiatori, magari maschi, isolati o raggruppati in bande. Tutti insieme contribuiscono a farci vivere nell’inquietudine e alimentano il nostro senso di insicurezza.

Ciò che in genere non si racconta è, appunto, l’altro lato della medaglia. Quello di chi subisce il borseggio. Mi ci sono imbattuto proprio in questi giorni, ascoltando il racconto dalla viva voce di chi ha vissuto il fatto. E’ un piccolo esempio di vita quotidiana italiana. 

UNA STORIA

Dunque da una città del Sud, viaggiando di notte, una madre, con una giovane figlia, raggiunge Roma  in autobus: deve portarla all’ospedale Bambin Gesù per una visita molto delicata.

Arrivate alla Stazione Tiburtina, alle 6,30 del mattino, prendono la metropolitana. C’è ressa, la bambina si trova schiacciata e la mamma, per farla respirare, strattonandola via, sposta per un attimo la sua borsa di lato. E’ bastato quell’attimo a qualche ladruncolo (sempre lì in agguato) per frugarle nella borsa e sfilarle il portafogli.

Poco dopo la donna se ne accorge e si rende conto angosciata di trovarsi a Roma, una grande città, senza più né soldi né documenti. E’ disperata, ma non vuole piangere perché c’è la figlia e non vuole allarmarla, oltretutto perché al pomeriggio hanno quella visita importante e sono già in tensione per tal motivo. Cerca di tranquillizzarla, ma non sa dove sbattere la testa.

Fin qui è una storia di borseggio come tante altre simili. Storie che talora diventano notizie di cronaca in televisione e sui giornali e che ci danno un senso di desolazione, di insicurezza e di preoccupazione.

C’è però un seguito, altrettanto normale, che vale la pena riferire perché parla di un Paese che di solito non vediamo e non raccontiamo più. 

FRATERNITA’

Arrivate alla fermata della metro della Stazione Termini la madre si rivolge ai militari di servizio che le indicano la stazione di polizia più vicina, dentro la Stazione stessa. 

Si reca dunque alla polizia a fare la denuncia del furto, che si rende necessaria soprattutto perché le sono stati rubati i documenti.

Ma il poliziotto  non si limita a fare il suo dovere burocratico, si preoccupa per l’ansia della madre, le domanda di cosa soffre la bambina e le chiede se ha un modo per farsi mandare dei soldi (anche per pagare la visita). In ogni caso le lascia il suo numero di telefono dicendole:“se non trova nessuno la aiuto io”.

Intanto la mamma telefona al “bed and breakfast” e il giovane proprietario, comprendendo la situazione, va addirittura alla fermata San Pietro dell’autobus 64 a prendere la mamma e la bambina.

Il posto per dormire era già stato pagato dalla donna, da casa, al momento della prenotazione, ma c’è da risolvere il problema dei soldi per la visita e per soggiornare a Roma.

Il proprietario del “bed and breakfast” le anticipa 150 euro (ancor prima di aver ricevuto il bonifico che la donna ha fatto con il telefono), nel frattempo dal paese della madre diversi amici, che hanno parenti a Roma, le fanno sapere che possono farle recapitare dei contanti, ma lei ringrazia e li rifiuta perché nel frattempo si è accorta che un suo “fratello di comunità”  consacrato (la donna fa parte di un movimento ecclesiale) alla partenza le ha messo in borsa una busta con dei contanti “per tutte le necessità”. I ladri non se ne sono accorti e per lei è stato provvidenziale.

Inoltre il parroco del suo paese ha telefonato a un parroco di Roma che conosce e la parrocchia romana si è detta subito disponibile ad ospitare la donna e la figlia, che però avevano già il posto letto. Le hanno comunque ospitate per i pasti.

Al Bambin Gesù i medici, dispiaciuti per l’accaduto, dicono alla madre di non preoccuparsi per la visita, che avrebbe potuto pagare una volta tornata a casa. Poi, per dei problemi burocratici con il Cup, è stato comunque necessario pagare subito, ma anche lì la donna ha trovato massima comprensione e disponibilità. Tanto che commenta, con commozione: “c’è tanta brava gente nascosta. Io ho trovato decine di angeli custodi”.

L’ITALIA VERA

E’ una piccola storia di vita quotidiana che mostra il volto bello della nostra gente. L’Italia vera è così. Quella rappresentata sui media no. Spesso i soloni dei giornali e dei salotti intellettuali descrivono il nostro Paese come volgare, violento e cattivo. Amano deridere la nota espressione “Italiani, brava gente”che giudicano uno stereotipo falso e ipocrita. Ma il nostro popolo è migliore delle sue élite. Ed è fatto davvero di brava gente. 

Se chiede più sicurezza per sé e per i propri figli, se chiede di non essere alla mercé della criminalità (piccola o grande), se chiede di non sentirsi invaso da una migrazione di massa fuori controllo, non è perché è intollerante, razzista o violento. Ma solo perché non ce la fa più.

Tanto che siamo stati comunque disponibilissimi ad aiutare tutti, anche in questi anni. Sono milioni gli italiani che donano il loro tempoin realtà di volontariato e in opere di carità e di assistenza, Inoltre da questa Italia sono partiti (e partono) tantissimi missionariche davvero, con le loro opere e la loro testimonianza, sono una benedizione per le popolazioni del Terzo Mondo.

Secoli di storia cristianahanno lasciato, nel fondo del cuore della nostra gente, un’istintiva propensione al bene, alla comprensione, all’umanità, come dimostra anche la piccola vicenda della madre e della figlia che ho appena raccontato. 

Finché non verrà sradicata del tutto da questa terra la sua anima cristiana, che agisce anche in chi non è praticante o si dice non credente, c’è speranza.

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Antonio Socci

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Sa “Libero”, 8 febbraio 2019

Ci sono zelanti scribi e turiferari di vario peso che da sei anni si trovano ad applaudire papa Bergoglio anche se, ogni giorno, ne dice di tutti i colori VEDI QUI LE ULTIME:  https://www.lifesitenews.com/news/papal-theologian-never-saw-final-draft-of-human-fraternity-doc-contrary-to-#When:23:49:00Z

E’ una vitaccia la loro, perché devono magnificare continuamente le splendide “vesti”, cioè le gesta, di un sovrano che è palesemente inadeguato (per questo personalmente sento di dover pregare tanto per lui).

E’ un papa sprovvisto di una seria preparazione teologica, troppo desideroso di compiacere i potenti padroni del mondo, clamorosamente privo delle basi culturali minimeoltreché di prudenza, di misericordia evangelicae di “sensus Ecclesiae”.

Costoro lo sanno bene perché da tempo ci sono liberi intelletti che – con dolore – segnalano le cose più stravaganti e inaudite. Ma gli zelanti scribi non cercano di correre ai ripari, diradando i loro elogi al sovrano o invitandolo alla prudenza. No. 

Si avventano su coloro che hanno il torto di amare la verità e di dirla. Così qualche zelante scriba non ha trovato di meglio che mettere sotto il microscopio me, che pure non sono nessuno, per una mia citazione di san Vincenzoche costoro credono (erroneamente) falsa. 

Vedremo dopo di cosa si tratta. Prima devo esprimere la mia divertita sorpresa. Abbiamo infatti un papa che, proprio in fatto di citazioni, manifesta una disinvoltura sconcertante e una fantasia straordinaria, un caso unico nella storia del papato, eppure a questi scribi non interessano le strane citazioni papali. A loro interessa una mia citazione.

Non è curioso? Eppure papa Bergoglio è immensamente più importante di mee le sue citazioni (come vedremo) hanno conseguenze pesanti sulla vita della Chiesa.

Faccio un esempio. Nel mio libro “Non è Francesco”riportavo proprio – fra tante altre cose – il singolare caso di una sua citazioneche (questa sì) sembrerebbe davvero inventata. Ecco cosa scrivevo:

C’è una citazione prediletta da papa Bergoglio. La ripropone di continuo. La prima volta da Papa citò questa frase subito dopo l’elezione, durante il discorso ai cardinali nella sala clementina: 
“Egli, il Paraclito, è il supremo protagonista di ogni iniziativa e manifestazione di fede. … Io ricordo quel Padre della Chiesa che lo definiva così: «Ipse harmonia est». Il Paraclito che dà a ciascuno di noi carismi diversi, ci unisce in questa comunità di Chiesa”. 
Dopo di allora ha citato quel «Padre della Chiesa» e la frase «Ipse harmonia est», riferita allo Spirito Santo, una miriade di volte. Per esempio il 19 maggio 2013 (omelia di Pentecoste, nella messa con i movimenti ecclesiali) o il 4 ottobre 2013, ad Assisi, nella cattedrale di San Rufino, parlando ai religiosi. Ma già la citava da cardinale, come si vede nell’intervista rilasciata a «30 Giorni» nel 2007.
C’è solo un problema: che non esiste un Padre della Chiesa che abbia detto quella frase.Pure in Vaticano, dove sistemano tutti i discorsi papali per la pubblicazione sugli «Acta Apostolicae Sedis», non l’hanno trovato e quindi la frase compare senza attribuzione
Tuttavia, nessuno glielo dice, quindi Bergoglio continua a citare quel – non meglio identificato – «Padre della Chiesa». 
Avrei taciuto volentieri anch’io se alla fine quella citazione improbabile, durante l’incontro di Caserta del 28 luglio 2014 con il pastore pentecostale Giovanni Traettino, non fosse diventata la base «teologica» della nuova visione ecumenicache Bergoglio vuole dare alla Chiesa. 
Infatti ha detto: «La Chiesa è una nella diversità. E, per usare una parola bella di un evangelico che io amo tanto, una “diversità riconciliata” dallo Spirito Santo. [Perché] Lui fa entrambe le cose: fa la diversità dei carismi e poi fa l’armonia dei carismi. Per questo i primi teologi della Chiesa, i primi padri – parlo del secolo III o IV – dicevano: “Lo Spirito Santo, Lui è l’armonia”, perché Lui fa questa unità armonica nella diversità».
Considerato che nessun Padre della Chiesa ha mai pronunciato quella frase, sembra un po’ debole una teologia ecumenica fondata su di essa che – addirittura – spazza via la Dominus Iesus, la quale ha dietro di sé tutta la solidità della teologia cattolica. 

Ho scritto queste cose nel libro del 2014. Evidentemente la citazione fantasma – ripetuta di continuo – creava un certo imbarazzo in Vaticano. Così, nel 2017 (ci sono voluti tre anni), hanno cercato (maldestramente) di metterci una toppa e un articolo dell’Osservatore romano attribuisce quella “citazione” a Basilio di Cesarea.

Solo che il passo che citano di san Basilio non contiene affatto questa espressione. Eccolo qua: 

«Se dunque lodano Dio tutti i suoi angeli, se lo lodano tutte le sue potenze, questo avviene per il concorso dello Spirito. Se accanto a lui stanno migliaia di migliaia di angeli e infinite miriadi di ministri è nella potenza dello Spirito che essi compiono irreprensibilmente il loro ufficio. Tutta quell’armonia sovraceleste e indicibile (pàsan oun ten hyperourànion ekèinen kài àrreton harmonìan) nel servizio di Dio e nel mutuo accordo delle potenze sovracosmiche non potrebbe conservarsi senza che le presiedesse lo Spirito».

L’Osservatore romano, con evidente imbarazzo, commenta: “L’aforisma latino ‘ipse harmonia est’ non può e non vuole essere, proprio in quanto tale, una traduzione letterale del passo in questione”.

In effetti quella frase “citata” da Bergoglio non c’è proprionon c’è per nulla, né come traduzione letterale, né, in senso lato, come sintesi concettuale. 

Perché Basilio (che peraltro scrive in greco e non in latino) parlava del canto di lode a Dio degli angeli nei Cieli, mentre Bergoglio parla, confusamente, di carismi nella Chiesa oltretutto alludendo alle confessioni protestanti (come se i cori angelici e i seguaci di Lutero fossero la stessa cosa e come se fosse stato lo Spirito Santo a suscitare lo scisma protestante…).

Ognuno può trarre le sue conclusioni. Ma gli scribi bergogliani dovrebbero rispondere al quesito: è una citazione vera o inventata?

Non solo. Anche facendo il taglia e cuci a una citazione si può far dire a un autore l’opposto di quello che lui effettivamente afferma.

Prendiamo proprio san Vincenzo di Lérins(di cui parleremo dopo): Papa Bergoglio più volte cita il celebre passo sullo sviluppo del dogma del “Commonitorium”, ma non lo cita per intero, fa un taglia e cucida cui – guarda caso – restano escluse proprio le frasi che contraddicono la sua idea.

Per esempio, nel discorso al Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione cita questo passo affermando:

“D’altronde, come già ricordava san Vincenzo di Lérins: «Forse qualcuno dice: dunque nella Chiesa di Cristo non vi sarà mai nessun progresso della religione? Ci sarà certamente, ed enorme. Infatti, chi sarà quell’uomo così maldisposto, così avverso a Dio da tentare di impedirlo?» (Commonitorium, 23.1: PL 50)”. (…)
Questa legge del progresso secondo la felice formula di san Vincenzo da Lérins: «annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate» (Commonitorium, 23.9: PL 50), appartiene alla peculiare condizione della verità rivelata nel suo essere trasmessa dalla Chiesa, e non significa affatto un cambiamento di dottrina”.

Anche nell’intervista a padre Antonio Spadaro per “Civiltà Cattolica”, Bergoglio cita una frase tratta da quel passo di san Vincenzo di Lérins:

“Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età”.

Poi Bergoglio prosegue:

“San Vincenzo di Lérins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo e la trasmissione da un’epoca all’altra del ‘depositum fidei’, che cresce e si consolida con il passar del tempo. Ecco, la comprensione dell’uomo muta col tempo, e così anche la coscienza dell’uomo si approfondisce”.

Adesso leggiamo quel brano integrale del “Commonitorium” segnalando in neretto le parti omesse da Bergoglio:

Qualcuno forse potrà domandarsi: non vi sarà mai alcun progresso della religione nella Chiesa di Cristo?Vi sarà certamente e anche molto grande.
Chi infatti può esser talmente nemico degli uomini e ostile a Dio da volerlo impedire?
Bisognerà tuttavia stare bene attenti che si tratti di un vero progresso della fede e non di un cambiamento.Il vero progresso avviene mediante lo sviluppo interno.Il cambiamento invece si ha quando una dottrina si trasforma in un’altra.
È necessario dunque che, con il progredire dei tempi, crescano e progrediscano quanto più possibile la comprensione, la scienza e la sapienza così dei singoli come di tutti, tanto di uno solo, quanto di tutta la Chiesa.
Devono però rimanere sempre uguali il genere della dottrina, la dottrina stessa, il suo significato e il suo contenuto.
La religione delle anime segue la stessa legge che regola la vita dei corpi.
Questi infatti, pur crescendo e sviluppandosi con l’andare degli anni, rimangono i medesimi di prima.

E’ evidente che il taglia e cuci bergoglianoal “Commonitorium” fa dire a san Vincenzo di Lérins una cosa molto diversa da quanto lui davvero afferma. Anzi, più che diversa, gli fa dire una cosa antitetica.

Egualmente sconcertantisono altre citazioni bergogliane contenute addirittura nei suoi documenti ufficiali. Penso ad esempio a un testo come l’Amoris laetitia che ha un impatto devastante nella pastorale della Chiesa.

In quel testo le citazioni vengono disinvoltamente “trattate” e usate proprio per giustificare la nuova dottrina bergogliana in materia di unioni.

E’ il caso della citazione di un paragrafo della Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II, dove si omette il seguito (nello stesso paragrafo), perché contradice la tesi che si vuol sostenere, e che poi rifluisce nella più sconcertantenota 329in cui Bergoglio cita poche parole della “Gaudium et spes” (n. 51)per applicare in modo fuorviante,a coppie divorziate o risposate civilmente, quello che il documento del Concilio applica alle sole coppie validamente sposate. Facendo dire così alla “Gaudium et spes” un’enormità che è totalmente opposta al suo vero contenuto.

Sandro Magister così ha sintetizzato la disinvolta operazione bergogliana:

In effetti nella nota 329 della “Amoris lætitia” papa Francesco rivolge ai divorziati risposati che hanno scelto di convivere non più da adulteri ma “come fratello e sorella”, e quindi con la possibilità di fare la comunione, un esplicito rimprovero: quello di recare un possibile danno alla nuova famiglia, poiché – parole letterali – “se mancano alcune espressioni di intimità, ‘non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli'”. Questo con tanto di citazione – in realtà ritagliata da tutt’altro contesto – della costituzione conciliare “Gaudium et spes”. E, peggio, col sottinteso che fanno meglio gli altri a condurre una piena vita da coniugi anche in seconde nozze civili, magari facendo anche la comunione”.

Un altro caso clamoroso è la citazione a sproposito di san Tommaso d’Aquino (cap. 304) per fargli dire l’opposto di quello che il grande teologo insegnava. Come è stato scritto, è un modo di “valorizzare l’adulterio citando (male) san Tommaso” VEDI QUI:

http://www.lanuovabq.it/it/valorizzare-ladulterio-citando-male-san-tommaso

Tutto questo sembra davvero sconcertante, ma non interessa i nostri studiosi clericali che si applicano con accanimento a me.  

Eppure una mia citazione non cambia nulla, mentre le tante citazione disinvolte di Bergoglio cambiano la dottrina e l’insegnamento della Chiesa.

Comunque è a me che costoro rivolgono le loro attenzioni critiche. E – dopo tanto studio – è arrivato finalmente il “formidabile” colpo: insinuano che io abbia inventato una citazione.

Ora, mi corre l’obbligo di ringraziare sinceramentequesti zelanti scribi clericali, sia per l’importanza che mi attribuiscono (decisamente esagerata); sia per l’ingrato lavoro che si sono accollati.

Infatti in questi sei anni (oltre a qualche centinaio di articoli) ho scritto tre libridedicati al “caso Bergoglio/Benedetto XVI”, cioè: “Non è Francesco”(Mondadori), “La profezia finale” (Rizzoli) e “Il segreto di Benedetto XVI” (Rizzoli).

Se consideriamo pure il capitolo che ho dedicato a Bergoglio in “Traditi, sottomessi, invasi”, siamo quasi a 800 pagine complessive(senza contare qualche centinaio di miei articoli).

In circa 800 pagine che ho pubblicato, dense di tantissime citazioni, con riferimenti bibliografici e note, pensavo sinceramente di poter incorrere in diversi errori e imprecisioni, cosa più che normale e scontata.

Invece i miei zelanti scribi non sono riusciti a trovare nient’altro che un banale errore di nome, cioè una citazione di san Vincenzo Pallotti che io ho erroneamente attribuito a un altro san Vincenzo (cioè san Vincenzo di Lérins).

Mi dispiace che abbiano faticato così tanto, per trovare così poco. Sicuramente se si applicano di più potranno trovare altri miei errori e li ringrazierò se me li segnaleranno, come già li ringrazio per questa segnalazione.

In ogni caso aver attribuito a san Vincenzo di Lérins una frase di san Vincenzo Pallotti non mi sembra una cosa da perderci il sonno. 

E’ vero, loro l’hanno sbandieratacome se avessero scoperto chissà quale misfatto e addirittura hanno titolato “Una citazione inventata da Antonio Socci?”. Avevano l’aria di chi finalmente ha preso in castagna  questo giornalista che critica papa Bergoglio.

Ma era il loro stesso articolo a smentire l’insinuazione malevola contenuta nel titolo, infatti il loro articolo riportava una fonte autorevole della citazione del Pallotti che è l’introduzione al volume, curato da Giovanni Cittadini, “Pio IX, Lettere” (vol. I, Laurenziana, Roma), pubblicato nel 1990

Se cercano meglio potranno trovare pure altre fonti. A me basta prendere atto che questi affannati scribi si contraddicono da soli, smentendo nel loro stesso articolo ciò che insinuano nel titolo

La citazione originale di san Vincenzo Pallottiè questa: “Alcuni papi Iddio li vuole, alcuni li permette, altri li tollera”. Quella che mi era stata riportata e trasmessa diceva: “Alcuni papi Iddio li dona, altri li tollera, altri li infligge”.

Come si vede c’è una difformità lessicale sul verbo “infliggere”, ma non c’è una sostanziale differenza concettuale, anzi: mi sembra molto migliore e più corretta la versione di Cittadini, perché fa capire che Dio non ha nessuna parte (nemmeno come intento punitivo) nell’elezione dei cattivi papi (non ce li “infligge” Lui, ma gli uomini che li eleggono)

Dunque adotto volentieri la prima versione che mi è più utileper far capire il cuore del problema. Ringrazio i miei critici per la segnalazione, perché così rafforzano il concetto che volevo esprimere.

Oltretutto aver riportato la seconda versione in miei scritti del 2011 esclude del tutto che sia stata modificata deliberatamente quella parola di san Vincenzo Pallotti contro l’attuale pontificato, perché nel 2011 Bergoglio stava a Buenos Aires e regnava Benedetto XVI. 

Del resto – ripeto – se nel 2014, riprendendo quella stessa citazione del 2011, avessi avuto quell’intenzione “antibergogliana” sarebbe stato per me più efficace e utilecitare la prima versione.

In ogni caso si tratta di in una citazione che veniva fatta discorsivamente(infatti non aveva un rimando bibliografico  in nota), per esprimere un concetto che dovrebbe essere noto a tutti i cattolici.

L’importante, al di là delle diverse sfumature linguistiche, è proprio il concetto espresso da quel santo, che è lo stesso in entrambe le versioni. Ma i miei zelanti inquisitori si guardano bene dall’andare alla sostanza ed evitano di riflettere su quella frase di san Vincenzo.

Si fermano a criticare il dito, perché serve ad attaccare polemicamente il proprietario del dito, ma – per un animo che ha a cuore la Chiesa – è molto più importante guardare la luna che quel dito indica.

Quella espressa nella frase di san Vincenzo è una concezione perfettamente cattolica che dovrebbe mettere in guardia dal rischio, oggi devastante, della papolatria.  

Infatti lo stesso identico concettoè stato espresso dall’allora cardinale Ratzinger, in una dichiarazione riportata da “Avvenire”, nel 1997.

Il mio critico – tal Marcotullio – definisce “famigerata dichiarazione” quella del futuro Benedetto XVI. Io invece seguo questo grande teologo e papa che tuttora è fra noi il grande maestro della fede. 

Dunque Ratzinger, con la sua nota chiarezza, alla domanda se è lo Spirito Santo il responsabile dell’elezione di ogni papa, dette testualmente questa risposta:

Non direi così, nel senso che sia lo Spirito Santo a sceglierlo. Direi che lo Spirito Santo non prende esattamente il controllo della questione, ma piuttosto da quel buon educatore che è, ci lascia molto spazio, molta libertà, senza pienamente abbandonarci. Così che il ruolo dello Spirito dovrebbe essere inteso in un senso molto più elastico, non che egli detti il candidato per il quale uno debba votare. Probabilmente l’unica sicurezza che egli offre è che la cosa non possa essere totalmente rovinata. Ci sono troppi esempi di Papi che evidentemente lo Spirito Santo non avrebbe scelto.

In effetti la storia della Chiesa offre molti esempi di papi indegni (anche senza ricordare i papi che Dante mette all’Inferno). Così Ratzinger conferma proprio quanto affermato da san Vincenzo.

Si possono usare parole diverse, si può argomentare con uno stile diverso, ma resta la stessa concezione cattolica dei papi.

Per questo la Chiesa, durante i Conclavi, chiede ai fedeli di pregare affinché i cardinali eleggano il candidato che è nel cuore di Dio: proprio perché è possibile che eleggano qualcuno che non è adeguato al pontificato o che sarebbe pernicioso e magari è spinto da lobby e poteri di questo mondo.

In questo ultimo caso, lo Spirito Santo – diceva il card. Ratzinger – garantisce solo che costui non possa distruggere del tutto la Chiesa, anche se può fare danni immensi.

C’è di che riflettere… Facciamolo dunque con serenità e senza paraocchi, cari amici scribi. Riflettiamo con la pace di Cristo nel cuore.

Antonio Socci

Ma davvero i (cosiddetti) populisti grillini e le (cosiddette) élite ora si contrappongono sulla “sgrammatica”? 

In effetti gli esponenti del M5S fanno spesso a pugni con la lingua italiana, come dimostra un recente intervento alla Camera della deputata grillina Teresa Manzo.

C’è poi la guerra del congiuntivo. Nei mesi scorsi è stato Luigi Di Maioa scivolare, ripetutamente, sui verbi. Poi Di Battista: “Lei non mi interrompi”, “che le banche scrivino le manovre finanziarie”, “mi facci finire” (che ricordail “batti lei” di Fantozzi).

Così ieri Aldo Grasso, in un corsivo sulla prima pagina del “Corriere della sera”, ha tratto le sue ironiche conclusioni: “Il congiuntivo è solo un modo verbale che appartiene alla cultura radical-chic, un inutile orpello anti-populista? Parrebbe di sì. La sgrammatica (si dice?) produce nuove parole d’ordine contro la perfida élite, insegna a non vergognarsi dell’errore e a prefigurare una vita in brutta copia”.

Ma siamo proprio sicuri che ci sia una contrapposizione così netta sul congiuntivo tra populisti grillini e radical-chic?

In questi giorni, per esempio, è stato il nuovo segretario della Cgil, Maurizio Landini, a “Piazzapulita”, a far notizia sul congiuntivo: “vadi in qualsiasi posto di lavoro, vadi in un centro commerciale, vadi in un ospedale, vadi in un’azienda vadi…” 

Era inevitabile che quel “vadi” ricordasse a tutti “Il secondo tragico Fantozzi”, la scenain cui la contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare deve varare la nave: “Vadi, contessa, vadi…”.

Ma Landini è un populista o un radical-chic? E i grillini non sono poi culturalmente di sinistra come i radical-chic?  

La contrapposizione schematica di Grasso non torna più. Del resto la cronaca non è avara di congiuntivi sbagliati pure da esponenti eccelsi dell’élite. La rete non perdona e conserva le tracce. 

Qualcuno, implacabile, segnala per esempio il congiuntivo sbagliato da Massimo Cacciarie poi – a ruota – da Massimo Francoin una puntata di “Otto e mezzo”.

C’è cascato anche il premier Conte, che pure è docente universitario e appartiene all’élite (“si arricchischino”, “non so perché i giornali scrivino”).

E ci sono cascati i più veementi polemisti anti populisti, come Giuliano Ferrarache pure accusa i grillini di attentato al congiuntivo (“a Roma è in stato patologico un intero progetto antipolitico fondato sul pressapochismo, la demagogia, l’inettitudine, l’obliquità, l’uso sbagliato del congiuntivo“).

Come segnalò tempo fa Filippo Facci, una volta, sul “Foglio”, proprio Ferrara è riuscito a scrivere in poche righe: “Penso che quella è stata ed è una guerra giusta”, “Penso che è una benedizione” e un “Penso che la guerra americana non ha decretato il terrorismo”. 

Anche usare il congiuntivo per contrapporre l’Italia colta che ha studiato (radical-chic) all’Italia plebea che non ha studiato (populista) è del tutto sbagliato.

Come ricordava Oriana Fallaci, che era molto affezionata al congiuntivo, non c’è un solo contadino toscano che sbagli un congiuntivo, pur avendo appena la quinta elementare(confermo per conoscenza diretta).

D’altra parte un libro di qualche tempo fa, “Viva il congiuntivo”, sosteneva che spesso certe espressioni verbali che consideriamo sbagliate potrebbero essere accettabili scelte stilistiche che intendono riprodurre la lingua parlata.

Citavano frasi di tre scrittori moderni (che direi radical-chic) dai loro libri. Antonio Tabucchi: “entrambi facendo finta che non erano affatto rivali”. Sandro Veronesi: “Io dovrei credere che l’unica persona importante nella vita di mio figlio è l’intercettatore delle sue telefonate”. E Alessandro Baricco: “tutto è relativo, questo già lo si sapeva, meglio che guardo per terra, meglio che guardo il tubo”.

Prendete nota: i congiuntivi sbagliati dai radical-chic non sono errori, ma licenze poetiche.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 4 febbraio 2019

Proprio in questi mesi l’inferno compie cento anni. Ma è un centenario che non troverete ricordato quasi da nessuna parte, infatti parlare del Gulag sovietico è tuttora scomodo e imbarazzantein un Paese come il nostro, in cui il comunismo è stato così pervasivo, un paese le cui élite affondano le loro radici generazionali perlopiù in un passato comunista mai criticamente elaborato e mai sostanzialmente condannato

Eppure è quello il grande abisso che ha inghiottito il Novecento e che – specialmente in Asia – perdura anche nel XXI secolo. Il Gulag comunista resta la grande rimozione collettiva

Anche il recente documentario “Women of the gulag”, che pure è stato candidato all’Oscar nella categoria Best Documentary, non ha ricevuto quasi nessuna attenzione (è una struggente testimonianza di sei donne russe che vissero quell’orrore).

Perché questo silenzio imbarazzato sul centenario del Gulag?Un motivo può essere questo: perché cento anni ci riportano al 1918-1919, cioè un’epoca in cui non era Stalin a dominare, ma erano Lenin e Trockij.

Il fatto che proprio a loro vada ascritta l’invenzione del Gulag e del Terrore, come i sistemi di dominio del regime comunista, spazza via completamente l’idea – affermatasi in questi anni sui media – che il Gulag sia una perversa creazione di Stalin e che tutte le colpe ricadano su di lui.

Questa mistificazione passa anzitutto dal linguaggio. Basta fare attenzione e ci si accorgerà facilmente che sui media, nelle rare occasioni in cui si parla dei crimini del comunismo, si tenderà sempre ad evitare la parola “comunismo” e si userà invece la parola “stalinismo”.

Dando così ad intendere che se vi furono orrori (e oggi non è più possibile contestarli) essi furono dovuti alla perversa degenerazione di un uomo, di un tiranno, Stalin, non al comunismo in quanto tale che – a sentire il coro dei salotti illuminati – sarebbe comunque un nobile ideale, un’utopia buona, purtroppo tradita o non realizzata.

No. Ripercorrere l’instaurazione del comunismo in Russia significa, fin dall’inizio, imbattersi nel sistema del Terrore generalizzato

E’ connaturato al comunismo stesso. Infatti si è poi replicato nello stesso modo totalitario e stragistaa tutte le latitudini, dovunque sia stato impiantato(dalla Cina a Cuba, dalla Cambogia alla Polonia, dal Vietnam all’Ungheria, dalla Corea del Nord alla Germania Est, dall’Albania al Tibet).

Il Terrore ha forse la sua radice nella natura gnosticadel comunismo che disprezza la vita (altrui)e pensa di poter rovesciare la natura umanain qualsiasi modo: “Dell’uomo si può fare quel che si vuole”, diceva Lenin. 

E’ stato il più gigantesco tentativo planetario di costruire il Paradiso in terra senza Dio e in odio a Dio (Lenin soleva “sputare sul crocefisso e calpestarlo”). Per instaurarlo occorreva il Gulag.

Certo, omicidi e stragi iniziarono subito, con la rivoluzione d’ottobre, ma, ancor prima di consolidare il potere bolscevico, uno “spietato terrore di massa”viene “istituzionalizzato”, diventa un “terrore rivoluzionario eretto a istituzione di Stato”.

Attraverso il lager, il campo di concentramento. “Spetta a Trockij l’onore di aver utilizzato per primo questo termine. In un suo ordine del 4 giugno 1918” (Nekric-Geller).

In agosto anche Lenin usò quella stessa espressione in un telegramma ai commissari di Pensa, per reprimere una rivolta anti bolscevica, ordinando di “applicare spietatamente il terrore su vasta scala contro i kulaki (i contadini), i preti e i bianchi”rinchiudendo “tutti i sospetti… in un campo di concentramento fuori dalla città”.

Quindi lo stesso Lenin, nel Memorandum del 3 settembre 1918, proclama essere “necessario preparare in segretezza e con urgenza il terrore”

Due giorni dopo i “campi di concentramento” sono citati – scrive Anne Applebaum – “nel primo decreto in assoluto sul terrore rosso, in cui si ordinava non solo di arrestare e incarcerare‘eminenti rappresentanti della borghesia, latifondisti, industriali, commercianti, preti controrivoluzionari, ufficiali antisovietici’, ma anche di isolarli in ‘campi di concentramento’. Anche se non esistono dati certi alla fine del 1919 in Russia c’erano 21 campi registrati, mentre un anno dopo erano 107, cinque volte di più”.

Nella primavera del 1919 “furono pubblicati i primi decreti ufficiali sui campi speciali”.Iniziava così il vero terrore di massa, nasceva quel Gulag che inghiottirà la vita di decine di milioni di persone

Non era necessario neanche un motivo per essere arrestati. Negli anni di Stalin il tiranno decideva un certo numero di vittimee lo si doveva raggiungere. Per questo si poteva incappare nell’arresto senza ragione o per futilissimi motivi, sparendo nel nulla siberiano senza alcun regolare processo.

Questo sistema di “sacrifici umani”serviva sia per paralizzare nel terroretutto un popolo perché qualunque rapporto (anche tra familiari), poteva essere pericoloso. Sia per avere una grande massa di lavoro schiavisticoa disposizione con l’obiettivo dell’industrializzazione dell’Unione Sovietica.

Qua in Italia il più grande partito comunista d’occidente, per anni, ha indicato nell’Urss la patria del Socialismo e il paradiso dei lavoratori, alimentando per decenni il suo incrollabile mito.

Poi, una volta venuto alla luce il fallimento del sistema e l’orrore che aveva prodotto, con milioni e milioni di vittime, grazie alle opere di giganti come Aleksandr SolzenicynVarlam Salamov, si è evitato di fare i conti con la dolorosa verità.  

Anzitutto (come ho detto) si è cercato di scaricare tutto sulla personalità di Stalin. Poi si è preteso di imputare il Terrore al cosiddetto dispotismo asiatico, come se il comunismo fosse paragonabile all’autoritarismo zarista.

Questo è smentitonon solo dall’inferno provocato dal comunismo a tutte le latitudini, ma anche dalla realtà della Russia prerivoluzionaria.

Scrive Paolo Sensininell’introduzione al “Terrore rosso” di Sergej Mel’gunov: “un’altra favola tenacemente radicata in Occidente è quella che descrive l’epoca zarista come un ‘mondo avvolto nelle tenebre’, in cui regnavano padroni incontrastati l’‘oscurantismo’ e l’‘assolutismo’ più totali. Nulla di più falso. La realtà è invece che nella Russia prerivoluzionaria la società civile esisteva e stava strutturandosi anche grazie a una libertà di stampache si estendeva ogni giorno di più”.

Nel 1912 Lenin fa uscire “La Pravda”, “vi erano i sindacati, i partiti politici e il parlamento, la Duma”. L’incremento della produzione industriale era straordinario. E il 4 aprile 1917, il giorno dopo il suo rientro in patria (prima di prendere il potere), Lenindichiarava: “La Russia è oggi il paese più libero del mondo”.

Scrive Solzenicyn

“Se agli intellettuali di Cechov, sempre ansiosi di sapere cosa sarebbe avvenuto fra venti-quarant’anni, avessero risposto che entro quarant’anni ci sarebbe stata in Russia un’istruttoria accompagnata da torture, che avrebbero stretto il cranio con un cerchio di ferro, immerso un uomo in un bagno di acidi, tormentato altri, nudi e legati, con formiche e cimici, cacciato nell’ano una bacchetta metallica arroventata, schiacciato lentamente i testicoli con uno stivale e, come forma più blanda, suppliziato per settimane con l’insonnia, la sete, percosso fino a ridurre un uomo a polpa insanguinata, non uno dei drammi cechoviani sarebbe giunto alla fine, tutti i protagonisti sarebbero finiti in manicomio”.

Perché – aggiunge Solzenicyn – “nessun russo normale dell’inizio del secolo… avrebbe potuto credere” che questo orrore sarebbe stato il futuro.

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Antonio Socci

(Nella foto: Aleksandr Solzenicyn)

Da “Libero”, 3 febbraio 2019

Tutto fa brodo per andare addosso a Matteo Salvini, perfino l’Eneide. Ma sembra che le tante menti erudite e illuminate che in queste ore si stanno rimbalzando su Twitter e Facebook certi versi del poema virgiliano, non si siano rese conto di aver fatto un curioso autogol.

Ecco perché. Un paio di giorni fa mi sono accorto che impazzava su twitter e su facebook questa citazione dell’Eneide: 

In pochi a nuoto arrivammo qui sulle vostre spiagge./ Ma che razza di uomini è questa?/ Quale patria permette un costume così barbaro, che ci nega perfino l’ospitalità della sabbia;/ che ci dichiara guerra e ci vieta di posare i piedi sul lido./ Se non nel genere umano e nella fraternità tra le braccia mortali, credete almeno negli Dei, memori del giusto e dell’ingiusto”.

E’ tratta dal primo libro del poema virgiliano (versi 538-543). Anche Giuliano Ferrara, ormai tornato nel salotto della sinistra da cui proviene, vestiti i panni del Giornalista Collettivo, ha rilanciato un tweet della collega Monica Guerzoni, del “Corriere della sera”, con questa citazione e l’hashtag “migranti”.

Come se Virgilio parlasse della nave Diciotti o della Sea-Watch. Da una rapida ricerca mi sono reso conto che tutto il solito coro progressista del “restiamo umani” da giorni diffonde questa citazione semi colta.

Così, tramite i versi virgiliani, esibiscono la loro raffinatissima cultura (sono tutti grandi classicisti) e redarguiscono duramente il cattivone Salvini mostrando che la voce della civiltà fin dall’antichità lo condanna. 

C’è solo un piccolo problema: non basta far rimbalzare su twitter una citazione dell’Eneide, estrapolata dal contesto; bisognerebbe anche conoscere quel poema. Sarebbe utile.

Se lo si legge infatti si comincia a sospettare che il poema virgiliano (a cominciare da quella citazione) potrebbe portare più acqua al mulino di Salvini che a quello degli autoproclamati umanitari.

I versi citati sono pronunciati dal venerando Ilioneo a nome dei troiani. Intanto va detto che i suddetti troiani sono da considerare profughi– che fuggono dalla nota guerra che ha distrutto la loro città – e come tali, se vogliamo rapportarli al presente, rientrerebbero in quella piccola minoranza di immigrati a cui tutti (Salvini compreso) riconoscono diritto di asilo

In secondo luogo Ilioneo – che sta lamentando la brutta accoglienza ricevuta lì a Cartagine, “in Libia”(per una curiosa coincidenza) – sta parlando alla regina Didonee le chiede di non far bruciare le sette navi troiane perché loro non hanno intenti ostili, sono stati spinti su quella costa dalle tempeste e un’altra è la loro meta, perciò ripartiranno appena hanno riparato le loro imbarcazioni.

Quindi parliamo di pochi profughi che intendono pure restare per poco tempo e poi andarsene. Non parliamo – com’è il caso nostro, oggi – di 600 mila migrantiche sono sbarcati da noi in cinque anni, che sono nostri ospiti, vogliono restare quae hanno dietro altri milioni di personeche intendono raggiungerli. Sono due casi non paragonabili.

Nell’Eneide dunque accade che Didone accoglie a Cartagine questi profughi capeggiati da Enea. Fra i due scoppia l’amore, ma finisce male perché Enea dà una fregatura (peraltro annunciata) alla regina: se ne va, con i suoi, e Didone è tanto disperata che si suicida per essere stata illusa così da colui che aveva accolto e amato. Quindi una storia tragica.

L’approdo vero e definitivo dei troiani è l’Italia. Ma anche in questo caso il parallelocon coloro che arrivano oggi sulle nostre coste come migranti non regge.

Tanto che un professore di lettere, su internet, dopo aver invitato a rispettare almeno Virgilio, commenta:Enea è l’esempio dell’immigrato pericoloso per la cultura e la società italiana. Giunge in Italia, uccide Turno, legittimo re dei Rutuli ed eroe locale e poi si prende la sua promessa sposa, Lavinia”. Quindi fonda una nuova civiltà che spazza via le precedenti

Se usiamo i classici per banali polemiche politiche sull’attualità è facile fare autogol e infatti in questo caso qualcuno potrebbe usare proprio la vicenda di Enea e concludere: “ecco il futuro dell’Italia. Se non chiudiamo le frontiere saremo spazzati viada chi viene da lontano e vuole sostituire la nostra civiltà con un’altra cultura e altri costumi”.

In realtà bisognerebbe rispettare sempre i classici e salvaguardarli dall’uso politico improprio. E’ utile capirne la complessità che è ricca di spunti sorprendenti. 

Fra l’altro, se vogliamo approfondire il “caso Enea”, scopriamo che le cose sono ancora più complesse, infatti per Virgilio i troiani non sono proprio degli stranieri che sbarcano su coste sconosciute, ma sono praticamente degli oriundi.

Infatti il re Latinoli accoglie perché dice di essere a conoscenza che Dardano, capostipite dei Troiani, era nato nella città etrusca di Corito (Tarquinia): “Di qui, dalla sede etrusca di Còrito egli è partito” (VII, 209)

Perciò, in qualche modo, sono tornati alle origini. E Ilioneo conferma: “Sì, qui Dardano è nato:/ qui ci richiama, e insiste con gravi moniti, Apollo,/ al Tevere etrusco, ai sacri stagni del fonte Numìco” (VII, 240-242).

Così infatti era stato detto ai troiani:  “la stessa terra che vi generò per prima dalla stirpe dei padri vi accoglierà reduci nel suo fertile grembo. Ricercate l’antica madre” (III, 93-96).

Tutta l’architettura dell’“Eneide”, che celebra la gloria di Roma, si radica in questo “ritorno” fatale. Perché Roma sboccerà proprio da questa sintesi dei popoli italici. 

L’“Eneide” vuole cantare la grande epopea dei popoli italici che “civilizzano” il mondo, non può essere ridotta a un manifesto migrazionista, per uso propagandistico. 

E’ semmai il poema dell’identità italiana, infatti la parola “Italia” risuona fin dal suo secondo verso: “Armi canto e l’uomo che primo dai lidi di Troia/ venne in Italia fuggiasco per fato”. E’ il poema dei popoli italici.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 28 gennaio 2019

E’ sempre più chiaro che, per i popoli di oriente e di occidente, papa Bergoglio è ormai un grosso problema

Il “caso Venezuela”lo ha reso evidente, come pure l’“alleanza” vaticana col regime comunista cinesee, ancora prima, l’esplosione dell’emergenza emigrazioneche ha destabilizzatol’Italia e l’Europa. 

Tutti e tre questi “temi” vedonoconfliggere frontalmente Bergoglio con i popoli interessati e con la politica della Casa Bianca. Non a caso Trump fu attaccato dal papa argentino già durante la campagna presidenziale.

Il pontificato di Bergoglio è infatti un prodotto dell’epoca Obama/Clinton, di cui porta avanti l’agenda, senza più avere però quella sponda politica (e pure Macron ormai è un’anatra zoppa).

La prima destabilizzazione bergogliana ovviamente si abbatté sulla Chiesa  che aveva rappresentato, fino a Benedetto XVI, l’istituzione più autorevole, più rappresentativa e più antica del mondo. E che ora, con Bergoglio, è precipitata nella crisi più grave della sua storia.

Bergoglio ha radicalmente stravoltoi connotati del papato: non più un messaggio spirituale, ma mondano, niente più soprannaturale, ma sempre politica. All’annuncio di Cristo unico salvatore, si è sostituita un’imitazione dell’Onu politically correct, con un forte timbro di sinistra radicale

E’ la vecchia teologia della liberazione. Non a caso proprio in queste ore è stato “pensionato” il cardinale Cipriani, arcivescovo di Lima e capo della chiesa peruviana, sostituito da don Carlos Castillo, discepolo di Gustavo Gutiérrez, il fondatore della teologia della liberazione.

Il pontefice argentino è amichevole o dialogante con i regimi illiberali (islamici o socialisteggianti o comunisti), mentre è duro con i paesi liberi occidentali (in particolare con il presidente Trump e con Matteo Salvini)

In America latina infatti Bergoglio ha rapporti amichevoli con Cuba, con il Venezuela di Maduroe con il compagno presidente boliviano Evo Morales(quello che gli regalò la scultura del crocifisso con falce e martello).

Nei giorni scorsi c’è stata una clamorosa iniziativa di venti ex capi di Stato dell’America Latinache hanno contestatoa Bergoglio, con una lettera pubblica, il suo solenne messaggio di Natale in cui invitava alla concordia il popolo del Venezuela e anche quello del Nicaragua.

Gli ex capi di Stato hanno obiettato: “In questo modo non si mette affatto l’accento sul fatto che il primo Paese è vittima dell’oppressione di una narco-dittatura militarizzata, che non ha remore a violare sistematicamente i diritti alla vita, alla libertà e all’integrità personale e… lo sottopone a condizioni di carestia diffusa e mancanza di medicine. Il secondo Paese, a metà del 2018, è stato vittima di un’ondata di repressione che ha seminato quasi 300 morti e circa 2.500 feriti”

Le parole di Bergoglio, in quei termini, aggiungono i firmatari, “possono essere interpretate anche in modo negativo per la maggioranza dei venezuelani e nicaraguensi”, perché rischiano di essere sentite come “una richiesta ai popoli oppressi, che sono vittime ad accordarsi con i rispettivi aguzzini”, specialmente nel caso del Venezuela, dove “c’è un governo che ha causato 3 milioni di rifugiati”.  

Ma per i profughi provocati da Maduro, Bergoglio non ha affatto l’interesse ossessivo che invece manifesta sempre per i migranti che vogliono venire in Italia

Anzi, ha fatto clamore il fatto che il Vaticanoabbia voluto mandare un proprio rappresentantealla recente cerimonia di insediamento di Maduroche è stata disertata dalla maggior parte dei paesi europei e sudamericani.

Intanto il popolo venezuelano, in miseria, protesta, i vescovi denunciano i soprusi del regime di Maduro e, proprio in questi giorni, in Venezuela è esplosa la crisi istituzionale, perché il presidente dell’assemblea nazionale Guaidò(con l’appoggio del mondo libero) si è fatto avanti per liberare il paese dal successore di Chavez. Così adesso Bergoglio si trova in palese imbarazzoe, pur trovandosi a due passi (a Panama), non ha finora pronunciato parola.

Va detto che anche la clamorosa intervista papale sulla Cina, che aprì la strada all’accordo col regime comunista, stupì, scriveva Sandro Magisterper le parole con cui il papa assolveva in blocco il passato e il presente della Cina, esortandola ad ‘accettare il proprio cammino per quel che è stato’, come ‘acqua che scorre’ e tutto purifica, anche quei milioni di vittime che il papa s’è guardato dal nominare, neppure velatamente”.

Così fu siglato l’accordo con cui il Vaticano ha sostanzialmente consegnato la Chiesa cinese al regime.

La stessa indifferenza verso i cristiani perseguitatimanifestata dal Segretario di Stato di Bergoglio, card. Parolin, quando, di recente, ha dichiarato che non c’è nessuna attività diplomatica del Vaticano a favore di Asia Bibie della sua famiglia e che la tragedia di quella povera donna cristiana “è una questione interna al Pakistan”.

All’Italia invece Bergoglio ritiene di dover prescrivere perfino la politica migratoria, che sarebbe prerogativa dello Stato laico.

Bergoglio ha giocato un ruolo importantedurante la formidabile ondata migratoriadegli ultimi sei anni. Non solo per i continui, quotidiani interventiad abbattere le frontiere. 

Si è saputo di recente che fece pure un intervento direttosull’allora premier Enrico Letta, dopo la tragedia di Lampedusa. Telefonata dell’ottobre 2013dopo la quale fu varata l’operazione “Mare Nostrum”, che di fatto spalancò le porte agli arrivi. 

Dunque un pontificato pernicioso non solo per la Chiesa, ma per i popoli

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Antonio Socci

(nella foto papa Bergoglio con Nicolas Maduro)

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www.antoniosocci.com