QUELLO CHE IN ITALIA NON SI VUOLE VEDERE, NAVALNY LO AVEVA SCRITTO CHIARAMENTE
Perché tanti politici e giornalisti non vogliono riconoscere che l’attuale regime di Putin non è altro che una regressione verso il vecchio comunismo russo, la sopravvivenza di quel sistema e di quella Nomenklatura variamente camuffata e riciclata?
Eppure lo stesso Alexey Navalny, nelle lettere all’ex dissidente Natan Sharansky, pubblicate il 20 febbraio dalla Stampa, lo sottolinea: “ingenuamente abbiamo pensato che non si potesse tornare al passato (…). Il tuo libro infonde speranza perché la similitudine tra i due sistemi – l’Unione Sovietica e la Russia di Putin, la loro somiglianza ideologica, l’ipocrisia che funge da premessa stessa per la loro esistenza e la continuità dalla prima alla seconda – garantiscono un crollo ugualmente invitabile”.
È ovvio. Del resto Putin viene dal Pcus ed era un funzionario del Kgb. Ma sembra che politici e intellettuali di sinistra del nostro Paese non riescano a pronunciare quella parola – comunismo – in relazione alla Russia di Putin.
Non solo. Più in generale si nota la rimozione del termine “comunista” quando si parla di lager, massacri e Terrore. Da anni – sui media e nel dibattito politico – gli orrori del comunismo vengono posti sotto la categoria “stalinismo”.
È un fenomeno che abbiamo criticato più volte, perché è storicamente infondato ridurre il Gulag, il Terrore e i massacri a un solo uomo (il cattivo Stalin) e a una sola epoca, quando in realtà sono una costante dei regimi comunisti a tutte le latitudini.
Inoltre, in Russia, il Terrore, i massacri e i campi di concentramento arrivarono subito, dal 1917-1918, per volere di Lenin. Prima dell’epoca staliniana. Usare il termine “stalinismo” invece che “comunismo” in qualche modo assolve l’ideologia.
Eppure ancora oggi, a più di trent’anni dal crollo dei regimi dell’est e dal frettoloso cambio di casacca del Pci, si continua a parlare di “stalinismo” anziché di “comunismo. Pure sui media.
Ieri, per esempio, Antonio Polito, uno degli editorialisti più importanti del Corriere della sera, ha firmato un commento sul caso Navalny in cui metteva sotto accusa “Gli ‘avvocati’ italiani dello zar” (questo il titolo del suo pezzo).
Ad un certo punto ha citato la terribile storia di Margarete Buber Neumann “che ebbe la triste sorte” ricorda Polito “di conoscere personalmente sia i lager nazisti sia i campi di rieducazione sovietica”.
Sorvoliamo pure sulla distinzione fra “lager” e “campi di rieducazione”. Però non può lasciare indifferenti la scelta di chiamare “stalinista” e non “comunista” il Gulag sovietico.
Come si spiega? Fra l’altro poco dopo Polito usa la parola tabù, ma per indicare i comunisti come vittime di Stalin, il quale fece “morire migliaia e migliaia, non di avversari, ma di comunisti, medici, generali, ebrei”.
In effetti Stalin, oltre agli avversari, fece morire anche molti comunisti. Si massacrarono fra loro, secondo la logica del Terrore. Eppure è curioso che Polito usi la parola “comunista” solo per parlare delle vittime di Stalin.
C’è una qualche remora psicologica? Quale? È vero che anche lui, come molti, ha il suo passato comunista. Dopo la maturità, leggo su Wikipedia, si iscrisse al Partito Comunista (Marxista-Leninista) italiano, poi passò al Pci e alla sua Federazione giovanile (Fgci). Quindi cominciò il suo lavoro giornalistico all’Unità, organo del Partito (del resto lo stesso direttore del Corriere viene dall’Unità come altri importanti editorialisti).
Ma ormai Polito esibisce da anni la sua fede atlantista. Anzi, spiega sempre Wikipedia, fa parte di Aspen Institute e, dal 2006 al 2009, è stato vice presidente della Fondazione Italia-Usa.
Allora come si spiega quella scelta lessicale? Il passato pesa psicologicamente così tanto? Oltretutto Polito è un collega molto accorto nell’uso dei termini, tanto è vero che nello stesso articolo analizza le parole usate da Indro Montanelli a proposito del caso Matteotti. Scrive infatti: “Sospettiamo che gli avvocati nostrani di Putin avrebbero difeso anche Mussolini dall’accusa di aver fatto assassinare o, come si espresse con penna sopraffina Indro Montanelli, di aver ‘lasciato assassinare’ Giacomo Matteotti”.
Va detto che quello di Polito è solo un caso, il più recente. Ma è normale, per politici e intellettuali provenienti dal comunismo (e in Italia sono tanti), usare l’espressione “stalinista” anziché “comunista” quando parlano di Gulag e Terrore rosso.
Sembra che non ce la facciano a pronunciare quella parola in relazione all’orrore. Però non rinunciano alla loro vocazione pedagogica che li induce – pur con quel passato – a dare agli altri lezioni di liberalismo, concedendo o negando patenti.
Mi è capitato di sentire, proprio nei giorni scorsi, Pier Luigi Bersani emettere un sentenza di sospetto “illiberalismo” a proposito dei suoi avversari politici. Senza però aver mai fatto i conti fino in fondo con il comunismo. Si può infatti chiedere a Bersani se si è mai detto (e si ritiene) anticomunista…
Prima di salire in cattedra bisognerebbe sostenere gli esami. Per esempio, due giorni fa, Gianni Cuperlo su Facebook ha scritto un post intitolato “Matteo Salvini è un uomo libero?”.
Cuperlo non solo ha militato nel Pci, ma ne è stato un dirigente: fu infatti l’ultimo segretario nazionale della Federazione Giovanile Comunista Italiana (l’organizzazione giovanile del Pci).
Ebbene, nel suo post, Cuperlo attaccava così Salvini per le sue dichiarazioni sul caso Navalny: “Le sue sono le parole di un uomo libero da condizionamenti o ricatti da parte di Mosca?”
Non entro nel merito di questa polemica fra i due politici. Rilevo però che è davvero singolare che a muovere a Salvini un attacco del genere su presunti “condizionamenti” moscoviti sia un politico che ha militato, anche come dirigente, nel Pci.
Non c’è bisogno di ricordare come questo partito, fin dalla fondazione, nel 1921, abbia avuto la Russia come bussola politica. Un partito che crebbe nella ferrea obbedienza togliattiana a Mosca (ricordo sommessamente anni di finanziamenti sovietici: basta leggere “L’oro di Mosca” di Gianni Cervetti). Un partito che non volle mai cambiare il suo nome “comunista” finché il Muro di Berlino non crollò addosso alle Botteghe Oscure. Allora non sarebbe il caso di fare un esame di coscienza prima di fare gli esami agli altri?
Con buona pace dei reduci del Pci bisogna riconoscere che l’attuale regime putiniano in Russia non è altro che una regressione al vecchio Stato sovietico.
Antonio Socci
Da “Libero”, 23 febbraio 2024