MATTEO RENZI, FRA COMUNISTI E CATTOLICI. A PROPOSITO DEL REFERENDUM E DI UN’INQUIETANTE “PROFEZIA” DI ANTONIO GRAMSCI
“Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo”. E’ il celebre incipit del “Manifesto del partito comunista” scritto da Karl Marx e Friedrich Engels nel 1848.
Lunedì scorso – invecchiato, camuffato e male in arnese – quello spettro si aggirava, affranto e rabbuiato, alla Direzione del Pd. Ed ha buoni motivi per essere preoccupato. Perché di qui a poco potrebbe anche essere rinchiuso definitivamente nell’urna (elettorale e funeraria).
Infatti, al di là delle cronache e dei retroscena di cui si dilettano i giornali, quello che sta accadendo nel Pd – e che a tratti appare risibile – potrebbe avere perfino una sua grandezza storica.
Perché può portare, nel Pd e nel Paese, alla disfatta (e alla sparizione politica) degli ultimi eredi del Pci, che hanno in D’Alema e Bersani i volti-simbolo (costoro rappresentano tutto un mondo di cui fanno parte, per esempio, anche l’Anpi e il sindacato).
La grande disfida sulla manifestazione del 29 ottobre, convocata da Matteo Renzi, se – come pare – sarà per il “sì” al referendum, dovrà mostrare da che parte sta “la piazza” della Sinistra, cioè il popolo del Pd. Quindi rappresenta un rischio altissimo per entrambe le parti in gioco.
Il duello all’ultimo sangue che oggi oppone Renzi allo stato maggiore del vecchio Pci-Pds-Ds è una storia tutta italiana e ha una sua grandezza che probabilmente sfugge allo stesso Renzi (poco frequentatore della storia e dei libri: è grande attivista com’era Fanfani, ma con meno cultura politica).
PROFEZIA?
All’origine di tutto c’è quella sorta di “profezia laica” – firmata addirittura da Antonio Gramsci – che ha gravato, per anni, sui cattolici in politica. Quella “profezia” – quasi un sortilegio – fu scritta dal fondatore e ideologo del Pci sull’“Ordine nuovo”, il 1° novembre 1919, a proposito della nascita del Partito popolare italiano, la prima formazione politica dei cattolici che aveva in don Luigi Sturzo il suo leader:
“Il cattolicesimo” scriveva Gramsci “riappare alla luce della storia… Entra così in concorrenza non già col liberalismo, non già con lo Stato laico; esso entra in concorrenza col socialismo e sarà sconfitto, sarà definitivamente espulso dalla storia del socialismo (…). Il cattolicesimo democratico fa ciò che il socialismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida”.
Augusto del Noce, sottolineando la parola “suicidio”, commentava: “è a partire dall’idea del ‘suicidio’ che si intende quella del ‘compromesso’ nel suo senso e nella sua origine gramsciana”.
In effetti, soprattutto dopo il Concilio, una parte del mondo cattolico e della Dc – culturalmente subalterna all’ideologia della Sinistra – è stata attratta dall’abbraccio, dal “compromesso storico”, che, prima di una mera formula di governo, era il suicidio spirituale, culturale e politico dei cattolici italiani.
Con il crollo del Muro di Berlino, che ha indotto il Pci a trasformarsi in Pds, e con Mani pulite che ha spazzato via la DC (e gli altri partiti democratici), si è aperta per questa parte del mondo cattolico la possibilità storica di buttarsi fra le braccia della Sinistra post-comunista, all’insegna del dossettismo.
Ma non si è trattato subito di un “suicidio”, perché i post-comunisti non potevano puntare immediatamente alla guida del governo (come fece erroneamente Occhetto nel 1994) e, dando vita all’“Ulivo”, si sono coperti dietro alla leadership di Romano Prodi.
Il quale però non è stato affatto una foglia di fico, perché rappresentava un blocco di potere reale, che metteva insieme la vecchia “sinistra Dc” (gente col pelo sullo stomaco), poi la sua storia nell’Iri e i suoi – forti e potenti – collegamenti internazionali.
I post-comunisti pensavano di usare i cattolici come taxi per arrivare finalmente al potere (e poi inglobarli e digerirli), invece si trovarono usati dalla “sinistra dc” come serbatoio di voti.
Questo braccio di ferro per la supremazia è andato avanti con alterne vicende (compreso un rapido passaggio di D’Alema da Palazzo Chigi) fino alla riesumazione di Prodi che, nel 2006, torna a Capo del governo, ma di nuovo viene impallinato solo due anni dopo.
Nel frattempo è nato il Partito Democratico che, nelle ambizioni, doveva essere finalmente la fusione ideologica delle due anime, la Sinistra e la Margherita. Di fatto è un partito a trazione Ds.
L’OUTSIDER
Finché irrompe sulla scena l’outsider, Matteo Renzi che proviene dalla sinistra Dc e dalla Margherita, ma gioca una partita tutta sua.
Renzi fa riesplodere il conflitto con la bandiera della “rottamazione” dei vecchi e, per la prima volta, “conquista” il partito.
La sua egemonia sul partito e, subito dopo, a capo del governo (che ricorda quella di Fanfani nella Dc o di Craxi nel Psi), mette con le spalle al muro gli eredi del Pci, che – a differenza dei più giovani, sensibili alle sirene delle poltrone – non hanno mai perduto la ragione sociale della “Ditta”.
La resa dei conti finale arriva con due colpi micidiali di Renzi. Il primo è la legge elettorale, perché l’Italicum porterebbe alla rottamazione, nel Pd, dei post-comunisti non allineati e anche dei post dc; poi, combinato con la riforma costituzionale (che è il secondo colpo), assicurerebbe al premier Renzi, in pratica, un governo senza opposizione parlamentare.
E’ il finale di partita: il duello prevede un solo vincitore. Con il voto al referendum del 4 dicembre non solo Renzi si gioca il suo futuro, ma anche gli eredi del vecchio Pci.
Se Renzi vince si potrà dire che, cento anni dopo, ha rovesciato la profezia di Gramsci. Sarebbe veramente un evento storico che – in un certo senso – porterebbe la politica italiana oltre il Novecento.
Infatti il Pd sparirebbe ed entrerebbe sulla scena, in posizione dominante, “il Partito di Renzi”. Le conseguenze sarebbero grandi, ma sono grandi anche le incognite.
LE INCOGNITE
Infatti il vincitore sarebbe un leader politico giovane e dinamico che però – al di là di una generica identità di “cattolico di sinistra” (in realtà cresciuto nel clima berlusconiano del “fare” che ha rivoluzionato la comunicazione politica e la politica stessa) – non ha con sé nulla, né un programma serio, né una visione strategica, né una squadra, né una tradizione politica (perché non ha niente a che vedere né con la dottrina sociale della Chiesa, né con la storia della Dc, né con la storia ideologica della Sinistra, né con la cultura liberale).
E’ arrivato a Palazzo Chigi solo con la legittimazione internazionale della cancelliera Merkel e di Barack Obama, non con il voto degli italiani.
Questa è la sua grande debolezza che lo ha reso fra l’altro subalterno a questi poteri internazionali sia politicamente (nella Ue il governo italiano non conta niente), sia ideologicamente (come segnale di fedeltà all’ideologia obamiana ha forzato sulle “unioni gay” così da inimicarsi del tutto il mondo cattolico che invece sarebbe stato uno dei suoi punti di forza).
La prospettiva di Renzi è quella del Partito della nazione, ma una simile operazione – che avrebbe grandi prospettive – non si realizza in un laboratorio di palazzo, dove non c’è nemmeno un’idea della nazione.
Occorre una visione dello Stato e dell’Europa, dell’economia e della situazione geopolitica, occorre saper rappresentare mondi importanti della società, del lavoro, della cultura. Non basta la furbizia ereditata dal fiorentino Machiavelli.
Gramsci – che su Machiavelli ha scritto le pagine più geniali – ha mostrato come la grande politica non è (solo) un gioco di potere, ma anzitutto un radicamento profondo nella sensibilità e nella cultura di un popolo.
Renzi una radice popolare ce l’aveva, quella cattolica, che è una grandissima tradizione politica. Ma l’ha buttata a mare per inseguire il potere fine a se stesso e – se non la recupera, insieme alla cultura liberale – rischia di finire davvero come quei cattolici che Gramsci riteneva votati al suicidio, cioè i cattolici immemori e individualisti che – in nome del loro io – “decapitano Dio”.
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Antonio Socci
Da “Libero”, 12 ottobre 2016
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